Il Pensiero Cattolico

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Vito Sibilio

QUALE SINODALITA’ PER IL FUTURO PROSSIMO?

“Mentre si accende il dibattito sulla sinodalità in vista del sinodo di ottobre, pubblichiamo il puntuale contributo del Prof. Gianvito Sibilio, dottore in storia medievale e direttore di Christianitas Rivista di Storia Pensiero e Cultura del Cristianesimo. Egli ha presentato a San Severo, il libro di Nicola Bux e Guido Vignelli,  La Chiesa sinodale. Malintesi e pericoli di un “grande reset” ecclesiastico  Fede&Cultura, Verona 2023″.

Sentendo parlare tanto spesso di sinodalità, e considerando che la parola deriva da “Sinodo”, la quale a sua volta è sinonimica di “Concilio”, è facile cadere nell’errore per cui essa rimandi all’idea di un governo collegiale della Chiesa, in una forma simile a quella che si attribuisce alle Chiese Orientali separate da Roma o anche delle Chiese sui iuris.

In realtà si tratta di due cose completamente differenti, la cui distinzione è stata puntualizzata dalla Commissione Teologica Internazionale, mediante il documento La Sinodalità nella vita della Chiesa, del 2018[1].

L’espressione più qualificata del governo collegiale della Chiesa si riscontra nell’antica prassi annuale dei due Sinodi diocesani e del Concilio provinciale, dei frequenti Concili plenari delle Chiese locali e di quelli generali, che poi spesso venivano riconosciuti come Ecumenici. Essa durò a lungo ma infine fu battuta in breccia dal montante centralismo papale, per cui i vescovi, a partire dal momento in cui furono quasi tutti eletti da Roma, preferirono rivolgersi a lei per risolvere i loro problemi, piuttosto che ai loro pari. Fu così che la tradizione andò a ridimensionarsi. Ma quando nel Concilio Vaticano I, con la definizione del dogma dell’Infallibilità del Papa e del suo Episcopato Universale, la centralizzazione del potere ecclesiastico nelle mani del Romano Pontefice raggiunse il suo apice, si pose anche il problema di riequilibrare le competenze tra lui e l’Episcopato stesso. La cosa è stata risolta dal Concilio Vaticano II che, con il suo magistero supremo ed ordinario, ha insegnato la dottrina del Sacro Collegio episcopale con il Papa e sotto il Papa, al quale spetta la suprema potestà sulla Chiesa tanto quanto al Pontefice stesso da solo. Tale dottrina, la cui più qualificata applicazione è senz’altro la convocazione, di libera periodicità, dei ventuno Concili Ecumenici, ha implicato uno sforzo di maggiore attuazione pratica, ancora in corso, la cui massima espressione è stata l’istituzione del Sinodo dei Vescovi, con la costituzione apostolica Apostolica Sollicitudo, da parte di Paolo VI. Organo consultivo di composizione mista, risultante dall’elezione di delegati da parte delle Conferenze Episcopali e dalla nomina di membri di scelta pontificia, il Sinodo è stato nel 2018 riformato dalla costituzione apostolica Episcopalis Communio di Francesco, che proprio tramite tale documento ha tentato di collegare il concetto di Collegio episcopale a quello, del tutto nuovo, di sinodalità. In questa costituzione si legge infatti che l’intero popolo di Dio deve avere voce tramite i suoi vescovi (nm. 6), ridotti così a suoi portavoce.

La sinodalità, come afferma anche il Documento della Commissione Teologica Internazionale, si è sviluppato proprio a partire dal Concilio Vaticano II e dal magistero che lo ha seguito, ma nonostante ciò, nella stessa sede, viene definito come specifico “modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice (nm. 6, 3)”. Una definizione verbosa e nebbiosa al quale il Documento dà una patina esplicitamente scorretta quando suggerisce l’idea che la collegialità episcopale sia la forma più qualificata della sinodalità della Chiesa, implicando la caduta della barriera tra sacerdozio regale dei battezzati e legale degli ordinati, oltre che subordinare il potere delle chiavi a quello, del tutto nuovo, dell’insieme dei fedeli, quasi che Dio lo consegnasse ai vescovi tramite il corpo ecclesiale e non direttamente. Il Documento tenta di ravvisare nella Scrittura come nella Tradizione i luoghi teologici di questa dottrina del tutto nuova e, in palese contraddizione con sé stesso e le sue ammissioni iniziali, cerca precedenti della sua applicazione nel corso della storia ecclesiastica, in una maniera discutibile che meriterebbe di essere approfondita altrove. Peraltro la nuova concezione sinodale sembra voler giungere all’obiettivo di trasformare la “base” dei fedeli in un autentico, per quanto ancora velato, centro decisionale, quando invece ad essa può al massimo spettare una forma di consultazione, così da non pregiudicare le prerogative del sacerdozio gerarchico, della collegialità episcopale e del primato petrino. Ciò svela il background di questa nuova dottrina, ossia, senza risalire ai precedenti di matrice protestante, il Modernismo, il Patto delle Catacombe, la Teologia della Liberazione e il Neomodernismo. Un parterre piuttosto inquietante, ma sedimentato da tempo nella formazione di larga parte del clero.

La cosa ha ovviamente aperto un dibattito. Gli “innovatori” affermano che la lex credendi, nella quale tradizionalmente si convertiva quella orandi, oggi sarebbe il ricettacolo anche della lex agendi, il che porterebbe però, di epoca in epoca, alla trasformazione della morale in forme sempre nuove. Essi poi slegano il nesso esistente tra magistero e sentire dei fedeli, il sensus fidei – che rettamente inteso è un luogo teologico – concependo in senso quasi sociologico il Popolo di Dio e quindi “parlamentarizzando”, per così dire, il suo ruolo, come se si potesse prescindere dai contenuti della fede che sempre, ovunque e da tutti sono stati creduti. Ciò implicherebbe, in linea di principio, non solo che le verità di fede definite dovessero essere, eventualmente, rispiegate e nuovamente argomentate, il che è avvenuto molte volte, ma anche ridiscusse e quindi riformulate, addirittura in modi diversi e in contraddizione tra loro, il che è inaccettabile, quanto meno perché autodistruttivo per la Chiesa stessa.

Per adottare questa nuova metodologia nel modo più ampio e in forma definitiva, il Papa ha convocato una Assemblea sinodale specifica, che doveva tenersi nel 2022 ma che è slittata di un altro anno. Il dibattito che ne è seguito, viziato dalle ambiguità citate che Francesco, al suo solito, non ha corretto, ha prodotto un instrumentum laboris onnicomprensivo, interpretabile in diverse maniere, applicabile in ancor più modi, incapace di garantire in senso ortodosso il futuro sviluppo di questo nuovo metodo ecclesiale. Perciò l’instrumentum è stato oggetto di opposte valutazioni: dai peana della Civiltà Cattolica alle critiche vibranti dei Cardinali Pell, Burke e Müller. Quello che sarà, non sappiamo, ma è un dato di fatto che le patenti eresie esistenti, ad esempio, nella Chiesa tedesca col suo Conciliabolo, in quella Belga e in parte di quella Americana, non sono state condannate dalla Santa Sede – che è così venuta meno al suo dovere – mentre le nomine fatte nell’organigramma decisionale, tra le quali spicca quella dell’inquietante cardinal Jean Claude Hollerich non lasciano presagire nulla di buono. Il Pontefice crede che i conflitti non vadano sopiti ma suscitati, alla ricerca di una sintesi ulteriore prossima ventura, secondo una interpretazione un poco semplificata dell’opposizione polare di Romano Guardini. L’esito catastrofico dei due Sinodi sulla Famiglia, scolpito nella monumentale ambiguità dei passaggi chiave di Amoris Laetitia, è il faro, spento, in questa navigazione tormentata. Molti pensano di poter andare avanti con sicurezza, perché si tratta della convocazione legittima di un organismo ecclesiastico legale da parte del Papa regnate, il che è tutto vero. Ma questi crismi di legalità non impediranno la tracimazione del dibattito dentro e fuori l’aula, mancando una mano forte e una mente sicura a governarlo. La Curia Romana, oggi, laddove non può immediatamente modificare l’assetto disciplinare esistente, lo fa coesistere con quello nuovo che promuove di fatto, ma non il contrario. I poteri della finanza globalista, tramite i media che controllano, vogliono ipotecare il futuro della Chiesa, allo scopo di ridurre la natalità e accentrare le ricchezze, a dispetto dello stesso Pontefice e della sua formazione, un poco stantia, nella Teologia del Pueblo, che risulta del tutto inadatta a decifrare il presente, da cui viene suo malgrado rivisitata. Antiche crisi, come quella ariana o quella monotelita, possono essere comparate all’odierna e aiutano a capirla, ma nessuna di esse rende la complessa problematicità attuale che, amplificata dall’esterno, scaturisce da dinamiche interne della Chiesa che affondano le loro radici nella crisi post conciliare e nel rinnovamento teologico degli anni centrali del secolo scorso, in primis nella svolta antropocentrica della teologia rahneriana, ma anche nell’inquinamento delle fonti operato dalle infiltrazioni di agenti comunisti del COMSURGIN a partire dagli anni quaranta del secolo scorso.

In verità, il problema in questione sembra articolarsi su due livelli. Il primo è quello della metodologia proposta, supportata da un formidabile schieramento di mezzi e uomini che controllano tutto il mainstream ecclesiastico, ma che rimane, a mio avviso, fragile di una vera base dottrinale, specie agli occhi di chi ben conosca l’autentica Tradizione della Chiesa. Il suo esito dunque non può essere una primavera della Chiesa, ma un rigido inverno che, dopo averla congelata, la frantumi in mille pezzettini. Da qui si risale al secondo livello, ossia al problema della formazione del clero e dei laici, che in Occidente e nelle Americhe sono del tutto inappropriati a svolgere anche solo una funzione consultiva nel governo della Chiesa, se non fermamente regolata. Gli sviluppi della questione sono quindi tutti aperti. Del resto, negli anni sessanta e settanta un primo modello di consultazione allargata si ebbe nelle Comunità di Base, coi suoi trecentomila membri, nate all’ombra della Compagnia di Gesù, del tutto allo sbando sotto il Generalato di Arrupe. In questo modello, assimilabile anche ad altri di diversa matrice, che chiamiamo della contestazione progressista cattolica, ogni principio, pastorale canonico liturgico e dottrinale, veniva sottoposto al vaglio della comunità stessa. Se è questo il modello, la Chiesa in Occidente scomparirà. Ma è anche vero che, oltrecortina, proprio negli anni disgraziati della contestazione, nella Chiesa polacca, precisamente nell’Arcidiocesi Metropolitana di Cracovia, il Cardinale Karol Wojtyla riuniva i fedeli, i religiosi e i laici in autentici comitati di base, in cui potevano esprimersi su temi politici, economici, sociali, culturali – da cui erano esclusi dall’ateismo monopartitico della dittatura bolscevica – ma anche religiosi, in materie non di fede o non definite. La cosa era possibile perché il laicato polacco era ed è fedele alla Regula Fidei e il suo clero, solidamente formato, era stato temprato dalla persecuzione nazista e comunista. Le proposte dei comitati di base, incluse quelle religiose, venivano poi portate dall’Arcivescovo in Conferenza Episcopale e all’occorrenza anche al Sinodo di Roma. Possiamo sperare che questo modello trionfi. Ma perché ciò accada, siccome il dibattito sinodale è in corso, tutti coloro che hanno a cuore la conservazione della retta fede e della Tradizione, sia pure nel quadro di una sua crescita e sviluppo regolari, possono e devono guardare al modello polacco, propugnandolo, mentre denunciano i rischi insiti nell’altro paradigma. In tal caso la meta da raggiungere sarebbe quella di una consultazione, senza pregiudizio del potere di magistero e di ordine, nelle coordinate precise di una fede ben enunciata e, di conseguenza, anche ben vissuta. Una inculturazione accettabile della Chiesa nella post modernità, non de fide, ma congrua ad essa.

E’ questo l’apporto che possiamo dare alla grande e caotica consultazione in corso, avendo lo sguardo fermo a Cristo, che è il solo a guidare la Chiesa, con la consapevolezza che Egli chiama tutti ad operare responsabilmente. Un apporto tanto più necessario, perché ad oggi il dibattito sulla cosiddetta democratizzazione della Chiesa viene condotto con metodi non democratici, coi quali un gruppo ristretto di ecclesiastici rivoluzionari, dopo aver epurato i confratelli dissidenti, predetermina le opzioni di scelta della esigua base raccolta attorno a loro, anch’essa scremata delle voci contrarie, e a cui si chiede solo apparentemente di prendere decisioni. Un metodo divisivo, nonostante la drammatica diminuzione dei praticanti, un metodo settario, che perciò va combattuto con mezzi di autentica partecipazione al dibattito che è stato aperto in modo incosciente.

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[1] Cfr. sul tema N.BUX-G.VIGNELLI, La Chiesa Sinodale, Verona 2023; S.MADRIGAL, Che cos’è il cammino sinodale? Il pensiero di Papa Francesco, in La Civiltà Cattolica IV (2021), pp. 17-33; C.FANTAPPIE’, Metamorfosi della sinodalità, Roma 2023; A.MARTIN, Quale sinodalità, Brescia 2021; G.MÜLLER, In buona fede, Milano 2023; J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Questions about the Structure and Duties of the Synod of Bishops, in Communio, 48 (2021); pp. 70-78; si veda anche l’intervista di R.L.BURKE a LifeSiteNews, 18 ott. 2015, pubblicata in italiano su Scuolaecclesiamater.org; e G.PELL, The Catholic Church must free itself from this nightmare, su The Spectator, 10 gen. 2023, pubblicata in italiano su aldomariavalli.it.

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