Gabriele Cianfrani:
QUANDO IL FARE PRENDE IL POSTO DELL’ESSERE: una inquadratura teologica
Poco tempo fa, proprio in occasione della cosiddetta festa di Halloween, qualcuno si è premurato di dire che è giusto accogliere tale festa così com’è, anziché continuare con le solite crociate di stampo medievale, che allontanano le persone dalla Chiesa piuttosto che avvicinarle.
Verrebbe da chiedersi per quale motivo il Medioevo debba essere ogni volta criminalizzato e per quale motivo si faccia riferimento alle crociate quasi sempre in maniera spropositata. Ora, questo è un modo per dire che nel mondo odierno troppo spesso si conclude in tal modo: «se le cose stanno così, è giusto che restino così». Infatti, quante volte anche in ambito liturgico si sente dire: «noi facciamo così»; «da noi si usa fare così» ecc., riducendo tutto ad una sorta prassi senza fondamento. Quante volte si sente dire che san Paolo VI si è appellato ai testimoni anziché ai maestri, dal momento che abbiamo più bisogno di testimoni che di maestri? Ciò non è sbagliato, ma il problema sorge nel momento in cui, soprattutto oggi, si preferisce la famosa posizione di matrice protestante out-out (o questo o quello, ossia una posizione di esclusione) anziché la cattolica posizione dell’et-et (e questo e quello, sia questo sia quello, ossia una posizione di inclusione, sempre con la dovuta valutazione). Cosa vuol dire? Vuol dire che nel contesto odierno, anche sul piano teologico, si rischia di sfociare nella posizione dell’out-out, del tipo: o la parte speculativa o la parte pratica, come se ciò che riguarda la speculazione fosse arido, freddo, distaccato dal mondo reale.
Non finisca qua, dacché spesse volte si propende per una sorta di inclusione ‘assoluta’ (assoluto viene da absolutus, ossia «sciolto da tutto», «senza legami»), che corrisponde all’eccesso opposto, col risultato di gettare tutto nello stesso calderone per ottenere una bella zuppa «anonima». Non a caso, oggi, si parla così tanto di «pastorale» da non riuscire nemmeno ad esprimere cosa d’intenda precisamente con tale parola, tanto da risultare «anonima»: una pastorale anonima.
In realtà i due aspetti brevemente accennati (esclusione netta e/o inclusione assoluta) sarebbero le due facce della stessa moneta, perciò il problema risiede, in ultimo, nella moneta stessa. Vediamo di chiarire.
Ciò su cui si insiste molto, soprattutto nel contesto odierno, è la ricerca della pace. Pertanto, occorre impegnarsi per far sì che si raggiunga quella pace tanto desiderata, favorendo il dialogo (assoluto?) e cercando di trovare «accordi». Non importano le chiacchiere e tutti quei discorsi speculativi così distanti dalla realtà, quel che importa è trovare la pace e stare bene con tutti. Obiezione: è giusto impegnarsi per la pace, ma di quale pace si tratta? Semmai si trattasse di una pace raggiunta per mezzo di «accordi», questi sarebbero sempre terreni e destinati a disgregarsi, prima o poi. Alla fine ci ritroveremmo come prima. Ci ritroveremmo in una sorta di pace esclusivamente orizzontale, fondata esclusivamente sull’uomo, sradicata da Colui che è venuto per donarci la Sua pace. A questo punto la pace per la quale ci si impegna non sarebbe altro che una pace «assoluta», sciolta da tutto, anche da Dio: la falsa pace! Certo, dal momento che l’impegno nei confronti della inclusione assoluta comporta, paradossalmente, l’esclusione netta: dall’inclusione assoluta scaturisce quella realtà unica (pensiero unico?) che riconosce solo se stessa e nulla all’infuori di essa. Il primo ad essere escluso è il Signore. Attenzione, la «pace» e il «dialogo» sono di grande importanza, ma la tendenza odierna di assolutizzazione comporta lo svincolamento altrettanto assoluto, prima di tutto nei confronti di Dio. Ed ecco che, come denunciava Ratzinger, oggi si tende a parlare di tutto tranne che di «conversione». Per quale motivo? Semplice, perché la conversione consta di due piani: la conversione interna (μετάνοια), alla quale segue quella esterna (ἐπιστροφή) come manifestazione della prima. Non è possibile separare i due piani, pena la non conversione.
Ora, dal momento che la conversione esterna si pone sul piano del fare, mentre quella interna sul piano dell’essere – occorre che vi sia conversione per poter agire di conseguenza –, e quella interna avviene per l’aiuto della grazia divina, che suppone la natura umana, ne consegue che i due piani devono esserci entrambi e occorre mantenerli uniti, ma al contempo distinti. Non è possibile propendere per l’esclusione netta né per l’inclusione assoluta. Ciò dovrebbe risultare chiaro per un pastore d’anime, dal momento che sono dinamiche insite nel sacramento della Riconciliazione. Ma dal momento che vi è anche lo smarrimento dei sacramenti, viene da chiedersi che tipo di «pastorale» sia quella di oggi…
Ed ecco che oggi si perseguono obiettivi quasi ed esclusivamente sul piano orizzontale del puro fare – si constata spesso l’ossessione del fare esteriore anche nella liturgia, senza contare le grandi feste come il Natale e la Pasqua, ridotte quasi del tutto a quel puro fare consumistico –, perdendo di vista il piano verticale dell’essere. Il risultato? L’anonimato «assoluto».
E cosa sarebbe tutto ciò se non la perdita della ricerca del volto di Dio (De te dixit cor meum: “Exquirite faciem meam!”. Faciem tuam, Domine, exquiram, Sal 27,8)? Quale segno vi è, migliore di quello della Croce, per ripristinare i due piani sopra riportati?
Pertanto, l’assenza della parola «conversione» è il segno distintivo di un Cristianesimo del puro fare, della pura pratica, con l’esclusione dell’essere e della speculazione. Obiezione: semmai si escludesse la speculazione, come si potrebbe rispondere all’invito di Dio di ricercare/scoprire/investigare il Suo volto?
Santo Natale.
Gabriele Cianfrani