Nicola Barile
University of California, Berkeley
«Paupertas perfecta», «meritoria oboedentia».
Recensione di «Venenum caritatis est cupiditas». La povertà volontaria secondo il «De perfectione» e l’«Apologia pauperum» di San Bonaventura di Roberto Caria, Roma 2022
Venenum caritatis est cupiditas di don Roberto Caria è un esempio del fascino che ancora esercita sui contemporanei il mito della povertà evangelica e del dibattito che suscitò nel medioevo, ovvero quella lunga disputa che oppose l’Ordine francescano a papa Giovanni XXII (1316-1334) e il cui oggetto fu la questione se Cristo e gli apostoli avessero posseduto gli alimenti e i beni che consumavano;
Una questione da cui poi discendeva la legittimità della Regola francescana (approvata da Onorio III nel 1223), che prescriveva ai frati la povertà assoluta e interdiceva loro l’uso del denaro. Il grande sviluppo dell’Ordine francescano aveva infatti richiesto la creazione di una struttura organizzativa e l’uso di una vasta quantità di beni mobili ed immobili, a cominciare dai conventi, sicché la coerenza con il dettato della Regola era garantita da un espediente giuridico: ai frati minori veniva attribuito solo l’uso dei conventi, dei beni e del denaro necessari al loro sostentamento ed all’organizzazione dell’Ordine; la cui proprietà, invece, rimaneva formalmente di “amici” o dello stesso papato. Più precisamente, nella bolla Exiit qui seminat (1279), Niccolò III distinse cinque tipi di relazioni fra un soggetto umano e un oggetto materiale: proprietà, possesso, usufrutto, diritto d’uso e semplice uso di fatto: solo quest’ultimo veniva ammesso per i francescani, mentre i primi quattro erano considerati casi di dominium; ma l’ultimo no, perché il titolare poteva solo consumare il bene, non alienarlo. Questo espediente giuridico si rivelò una potente arma ideologica nella disputa sulla povertà evangelica:
i francescani, infatti, potevano presentarsi come l’unico Ordine che conduceva la vita perfetta degli apostoli, come coloro che, a differenza del clero secolare, vivevano in uno stato di perfezione paragonabile all’innocenza precedente il peccato, finché la politica filo-francescana della Santa sede non venne, ad un certo, ribaltata appunto da Giovanni XXII, che decise di imporre all’Ordine la titolarità della proprietà dei beni.
Parte del fascino della disputa sta nel fatto che, secondo studiosi sensibili all’«esistenza di qualcosa che, pure essendo più una tendenza che uno sviluppo di pensiero, merita di essere chiamato oeconomica franciscana»[1] (o «economia francescana»), mise in discussione la proibizione canonica dell’usura nel medioevo, da non considerarsi non più un dogma inscalfibile ma, al contrario, da sgretolare nella discussione minuta della liceità o meno di questo o quell’atto, ipotizzando casi precisi di elusione alla rigidità del principio[2].
Mentre oggi infatti usura si riferisce a un tasso di interesse esorbitante, nel medioevo con lo stesso termine ci si riferiva, invece, a una realtà specifica, ispirata al diritto romano ed elaborata successivamente dal diritto canonico, ovvero ad un qualsiasi sovrappiù rispetto al capitale di un mutuum (o contratto di prestito) che, secondo S. Tommaso d’Aquino, si riferiva soltanto a quei beni che non possono essere usati senza essere consumati o, detto altrimenti, il cui uso non può essere separato dalla loro sostanza, come ad esempio il grano, il vino e, appunto, il denaro. Venderne l’uso, quindi, come separato dai beni in sé, significava vendere qualcosa che non esiste o vendere due volte lo stesso bene; è per questo motivo, secondo il santo, che
vendere l’uso del denaro, che si consuma se speso in una transazione economica, o riscuotere usura, è un’azione ingiusta[3].
Venenum caritatis est cupiditas è lo sforzo di assimilare e, in qualche modo, leggere in chiave di attualità per un cristiano oggi, la disputa sulla povertà evangelica; partendo soprattutto dall’Apologia pauperum (1269) di S. Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) per ricostruirne i tratti salienti, l’Autore si sofferma quindi sulle «conseguenze sociali e politiche della vita povera delineata dal Dottore Serafico, a partire dalla istruttiva e sempre feconda distinzione tra la proprietà e l’uso dei beni economici. Grazie a questa distinzione e nei casi necessari separazione, gli Ordini Mendicanti avviarono anche audaci e approfonditi dibattiti in ambito economici e politico, che faranno scuola fino al sorgere dell’epoca moderna e della economia di tipo capitalistico. Solo per fare un esempio, la distinzione tra proprietà e uso si è rivelata fondamentale per capire il fenomeno dell’usura» (pp. 198, 185; corsivo delle parole italiane mio).
Io sarei però più cauto nell’applaudire all’attualità della disputa sulla povertà evangelica. Se è vero che la storiografia concorda nell’attribuire grande rilievo a tale discussione, i suoi esiti si presentano problematici per la posterità cristiana. La disputa sulla povertà evangelica fu uno dei canali di diffusione di una visione metafisica, gnoseologica ed etica alternativa al tomismo; infatti, nel momento in cui i francescani affermavano una visione del diritto di proprietà funzionale ad esaltare la loro scelta di povertà, segnava anche il passaggio da una cultura giuridica organicistica, significativamente compendiata nella forma mentis del diritto naturale oggettivo, a
una mentalità individualista, che assumeva invece come vessillo i diritti naturali del soggetto, considerati anteriori all’istituzione della proprietà e del potere politico[4].
Aderendo convintamente al tomismo, fino a canonizzare S. Tommaso il 18 luglio 1323 nella chiesa di Notre Dame in Avignone, Giovanni XXII riconobbe ufficialmente l’irrazionalità della posizione francescana e intimò all’Ordine di possedere tutto ciò che si usa, anche le cose che si consumano con l’uso, perché il consumo di un bene implica pure il suo possesso, che è il cuore (e non altri) dell’argomento di S. Tommaso sulla proibizione dell’usura. «Perché quale persona sana di mente», spiegava il papa nella bolla Ad conditorem canonum (1322), «potrebbe credere che fosse intenzione di un così grande padre [cioé papa Niccolò III] mantenere la proprietà per la Chiesa romana, e l’uso per i Frati, di un uovo, o di un formaggio, o di una crosta di pane, o di altre cose consumabili con l’uso, che spesso vengono dati agli stessi Frati perché li consumino sul posto?».
Le bolle di Giovanni XXII aiutano a capire perché allora il papa passò dalla iniziale repressione alla successiva imposizione del silenzio sulla disputa sulla povertà evangelica: lungi dall’essere più solo una mera questione dottrinale, la disputa sulla povertà evangelica si era trasformata infatti in una discussione sul significato per i religiosi dell’autorità e dell’obbedienza nella Chiesa[5]. Ecco perché il papa si trovò costretto a spiegare che, dei tre voti emessi dai religiosi, quello di povertà era il meno importante; se la perfezione della vita cristiana consisteva principalmente ed essenzialmente nella carità, per i religiosi era l’obbedienza ai superiori, se preservata
intatta, ad essere di primaria importanza, perché la disobbedienza può distruggere la vita religiosa (Quorundam exigit, 1317).
Credo pertanto che occorra cautela nell’affidarsi a quegli studî moderni che ripropongono, in chiave attualizzante, dottrine pur sostenute dai francescani, come quella secondo la quale Cristo e gli apostoli non possedettero nulla né a titolo individuale né in comune ma che, non dimentichiamolo, furono dichiarate eretiche dalla Santa Sede (Cum inter nonnullos, 1323). Se si vuole partire le fonti francescane per colmare la lacuna di una lettura della disputa sulla povertà evangelica dal punto di vista cattolico, non si deve, allora, considerare la ricostruzione offerta da padre Henri de Lubac (1896-1991), laddove il teologo spiega con chiarezza che S. Bonaventura approfondì l’ideale evangelico di povertà già espresso da S. Girolamo (347-420): «Nudo per seguire Cristo nudo», che poi S. Francesco riecheggiò: «Nudo fu lasciato, perché seguisse il crocifisso Signore che egli amava», come ricordava S. Bonaventura, perché «Non c’è altra via verso Dio»[6].
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[1] R. Lambertini, «Usus» ed «Usura». Difesa della povertà e teoria economica nelle risposte francescane a Giovanni XXII, in Id., La povertà pensata, Modena 2000, pp. 227-247, qui p. 247.
[2] P. Grossi, Somme penitenziali, diritto canonico, diritto comune, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Macerata», n. s., I (1966), pp. 95-134, qui pp. 132-133.
[3] R. de Roover, San Bernardino of Siena and Sant’Antonino of Florence. The Two Great Economic Thinkers of the Middle Ages, Boston 1967, pp. 27-29.
[4] L. Baccelli, Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Roma 2009, pp. 15-35.
[5] Per una lettura più approfondita delle più importanti bolle papali sulla disputa sulla povertà evangelica, si consulti il sito di Jonathan Robinson dell’Università di Toronto: http://individual.utoronto.ca/jwrobinson/.
[6] H. de Lubac, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, I, Dagli Spirituali a Schelling, Milano 2016, p. 169.