
Guido Vignelli
Un Magistero senza fondamento tradizionale? Conseguenze ecclesiali di una fuorviante impostazione

1. Tradizione e Magistero: un equivoco pericoloso
La Divina Rivelazione ci viene da due fonti: la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura. La Sacra Tradizione è fonte primaria e dinamica della Rivelazione, perché trasmette l’intera Rivelazione lungo la storia della Chiesa; la Sacra Scrittura invece è fonte secondaria e statica della Rivelazione, perché raccoglie le testimonianze scritte della Fede. Pertanto, la Tradizione è antecedente e superiore alla Scrittura.
La Sacra Tradizione conserva fedelmente e trasmette coerentemente l’esempio e l’insegnamento del nostro divin Redentore, come fu ricevuto visibilmente e oralmente dagli Apostoli e poi tramandato dai vescovi loro legittimi successori . Essendo la Divina Rivelazione terminata con la morte dell’ultimo Apostolo, sia la Scrittura che la Tradizione hanno bisogno di essere chiarite, precisate, interpretate e approfondite.
Questo ruolo spetta al Magistero ecclesiastico divinamente instituito; esso però non è fonte della Rivelazione né padrone della Parola divina, ma ne è solo l’autorevole custode incaricato di trasmetterla, esplicitarla, chiarirla e definirla.
Per questo si dice che il Magistero è regola prossima, ma non remota (ossia ultima) della Fede.
Il sommo sant’Agostino ci fornisce una precisazione utile al riguardo: «Si è nella vera Fede solo se si professa ciò che la Chiesa universale ha sempre professato e che non proviene da un Concilio, ma dalla Tradizione degli Apostoli».
Questa tesi è confermata dal Concilio Ecumenico Vaticano II: «Il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma ne è solo servitore in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente insegna la Parola divina e da questo unico deposito della Fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».
Insomma, «la Chiesa, attraverso il suo Magistero, è autorizzata a trasmettere soltanto questa Rivelazione, non un’altra né qualcosa d’altro. (…) Poiché il Magistero non è prima né al di sopra della Parola di Dio, ma solo al suo servizio, esso non è mai autorizzato a interferire sulla continuità oggettiva della Parola detta e scritta. (…) La sua stessa continuità è legata al suo compito dichiarativo, protettivo e diffusivo di codesto valore; se venisse meno a tale compito, se si sostituisse all’oggettività della divina Parola, se presumesse di fondersi con essa, cesserebbe immediatamente di essere sé stesso».
Il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa che la Sacra Tradizione non s’identifica con quelle tradizioni ecclesiastiche che costituiscono le numerose e mutevoli forme in cui essa si esprime adattandosi alle esigenze culturali richieste dalla storia e dalla geografia.
Tuttavia, bisogna rilevare che queste forme tradizionali derivate possono, e talvolta devono, essere rispettate perché, se vengono cambiate, si rischia di colpire quella “tradizione eterna” da esse veicolata nel tempo e nello spazio. Bisogna abolire solo le opinioni e usanze umane che ostacolano o falsificano la Verità rivelata e la santificazione, come quelle giudaiche avversate da Gesù stesso (Mt 15, 1-9).
2. Il paradosso di un Magistero non tradizionale
L’attuale situazione è tale, che spesso il cristiano ignora non solo il valore concettuale ma anche il significato linguistico dei vocaboli che esprimono i fondamenti della Fede. Ad esempio, oggi «la Tradizione (…) si espone al rischio di contraccolpi spiacevoli, in ragione della insufficienza o della equivocità di formule inadeguate e forse perfino ingannevoli e fuorvianti».
Infatti, si è diffuso un concetto di Tradizione che risulta… non tradizionale. Secondo molti filosofi, la Tradizione non è più intesa innanzitutto come contenuto di verità. Leggi e cerimonie oggettivamente valide, ma è ridotta a contenitore di opinioni, regole e pratiche soggettivamente valide che si evolvono sostanzialmente per opera di fattori storici, psicologici o sociologici che impongono le loro esigenze alla vita sociale.
Inoltre, secondo alcuni teologi, la Tradizione si fonda non sulla sua origine trascendente ed eterna, ossia sull’autorità di Dio rivelante, ma sul suo strumento immanente e storico, ossia sul Magistero ecclesiastico, inteso come fonte primaria della divina Rivelazione, come regola “regola che misura tutto e non è misurata da nulla”, nemmeno dalla Tradizione.
Data questa impostazione, l’autorità ecclesiastica non si limita più a trasmettere fedelmente divina Rivelazione ma pretende di adeguarla creativamente, ossia di manipolarla a proprio assoluto arbitrio, al fine di adattarla alle attese dei tempi e all’esigenze dei luoghi. Di conseguenza, l’autorità ecclesiastica pretende di avere l’indiscutibile diritto di decidere che cosa è o non è tradizionale nella Chiesa, che cosa ieri lo era ma oggi non lo è più, valutandone il valore secondo i “segni dei tempi” che manifestano le “richieste della Storia”.
Si prospetta quindi, da una parte, un paradossale Magistero anti-tradizionale che ha diritto di ammodernare la divina Rivelazione, dall’altra parte, una Tradizione e una Scrittura corrette e censurate secondo opinioni e gusti umani.
Secondo questa empia pretesa, le verità e le leggi divinamente contenute nella Sacra Tradizione, che sono eterne e immutabili in quanto universali e necessarie, vengono parificate alle tradizioni ecclesiali, ossia a quelle opinioni e usanze che sono inevitabilmente mutevoli e contingenti, in quanto temporaneamente e localmente espresse o praticate dagli ambienti culturali secondo le loro esigenze pratiche.
In questo modo, l’unica Tradizione divina viene ridotta alla mutevole raccolta delle molteplici tradizioni umane, per cui l’universale diventa locale e viceversa, l’essenziale diventa accidentale e viceversa, il fine diventa mezzo e viceversa, insomma il fondamento diventa vertice e viceversa. Questo rovesciamento fu denunciato un secolo fa dal cardinale Louis Billot in un suo prezioso libretto anti-modernista.
La Sacra Tradizione si riduce a ideologia che deve giustificare l’autorità ecclesiastica ed elaborare la prassi pastorale, ossia a strumento utile per convincere, unire e orientare i fedeli, per fare in modo che la cieca obbedienza all’autorità ecclesiastica produca la disciplinata compattezza della comunità ecclesiale.
L’autorità ecclesiastica diventa quindi autoreferenziale pretendendo di fondarsi su sé stessa, “norma non normata”; il potere posto al servizio della giustizia si rovescia nella giustizia posta al servizio del potere. La saggia massima giuridica “jussum quia justum” si rovescia nell’arbitraria massima “justum quia jussum”, che talvolta viene trasposta nella paradossale formula “credo quia absurdum”.
Come si vede, qui il vecchio errore protestante viene rovesciato. Ieri, la pseudo-riforma luterana riduceva la Tradizione alla interpretazione ecclesiale delle Scritture in funzione delle convinzioni e delle esigenze individuali; oggi invece il neo-modernismo riduce le Scritture alla loro interpretazione fatta dalla Tradizione ecclesiastica in funzione delle convinzioni e delle esigenze sociali.
Pertanto, oggi il depositum fidei viene interpretato e trasmesso da una imprecisata “tradizione ecclesiale vivente” animata dalla vitalità culturale e regolata dalla storia umana, senz’avere più l’obbligo d’insegnare «nello stesso senso e con la stessa sentenza», come ammonì san Vincenzo di Lérins.
3. Alcune conseguenze pratiche di questo falso concetto
Le conseguenze pratiche prodotte da questa falsa impostazione sul governo della Chiesa sono gravissime. L’insegnamento e la vita della Chiesa subiscono una mutazione sostanziale che ne rompe l’ordine, la coerenza e la continuità non solo storiche ma anche dottrinali.
Si realizzerebbe così l’infausto auspicio espresso un secolo fa dell’eretico Bonaiuti: «L’eresia di ieri diventerà la opinione di oggi e verità di domani»; oggi si potrebbe aggiungere che “l’abuso di ieri diventerà l’uso di oggi e la norma di domani”.
La missione della Chiesa finisce ridotta a una pastorale che presuppone il primato della prassi sulla dottrina, della esperienza sull’insegnamento, insomma della vita sulla verità, promuovendo così una eteroprassi che implicitamente e gradualmente favorisce l’eterodossia. Questo pastoralismo deriva dalla “eresia dell’azione”, promossa dal movimento modernista alla fine XIX secolo e oggi ripresa da quel “cambio di paradigma” che in realtà è un rovesciamento di paradigma e che si esprime nell’inquietante modello della Chiesa come “piramide rovesciata”.
Facciamo qualche esempio di questa impostazione riguardante il comportamento contraddittorio recentemente tenuto da una parte considerevole della Gerarchia ecclesiastica nel governare la Chiesa.
Oggi la fondamentale caratteristica che identifica il cristiano non è più la sincera professione della Verità divinamente rivelata, ma è semplicemente la pratica obbedienza ai legittimi Pastori. Decenni fa, un vescovo italiano si permise di sentenziare che «il fondamento della Fede è la sottomissione al proprio vescovo», suscitando così lo sconcerto dei commentatori.
Oggi si esalta il dubbio, la critica e la contestazione, si relativizza tutto anche in campo ecclesiale; eppure, si condanna e si reprime come integrista, passatista o “indietrista” un’affermazione drastica richiesta dalla santa dottrina o dalla sana morale cristiana.
Oggi si tollera o perfino si approva il fare scelte che negano una verità di Fede o di morale; eppure, si rifiuta come intollerabile o perfino illecito il criticare l’ultimo pronunciamento sinodale o l’ultimo piano pastorale varati da una qualche autorità ecclesiastica o commissione diocesana.
Oggi si tollera o perfino si approva un insegnamento o una cerimonia liturgica o una rappresentazione artistica che contraddicono o profanano le cose sacre; eppure, si ostacola o perfino si reprime un tentativo di ripristinare l’insegnamento o la liturgia o l’arte conformemente alle più antiche e venerabili tradizioni della Chiesa.
Oggi, se qualcuno insegna opinioni o commette azioni che colpiscono l’integrità della dottrina o la purezza della morale, lo si compatisce come caso di “fragilità” o perfino lo si giustifica come manifestazione di “pluralismo ecclesiale”, ossia in nome dei diritti delle minoranze. Al contrario, se qualcuno denuncia una eresia o una empietà o un abuso commesso, oggi si tende a ostacolarlo o perfino a condannarlo per attentato all’unità ecclesiale, ossia in nome dei diritti della maggioranza.
Insomma, oggi si attua la paradossale pratica per cui, quando avviene un incendio, si rimprovera e si punisce non i piromani che lo hanno acceso ma i pompieri che tentano di spegnerlo. Si applica così una famigerata e perversa massima di malgoverno: “essere debole con i forti ma forte con i deboli”.
Come si vede, non solo nel settore politico ma anche in quello ecclesiale, un’autorità priva di potere arretra di fronte un potere privo di autorità. Di conseguenza, l’autorità legittima non riesce a ristabilire l’ordine perché evita di reprimere gli abusi, mentre il potere abusivo riesce a imporsi perché si approfitta della complicità e della impunità di cui gode.
