Giorgio Esposito
Può l'arte bizantina sostituire la tradizione pittorica dell'arte sacra occidentale?
Il caso Rupnik
Le vicende scandalose che vedono implicato il pittore gesuita Marko Ivan Rupnik – di cui parleremo in maniera più diffusa in seguito – pongono alla nostra attenzione un problema che da decenni attende una risposta convincente e adeguata: quello dell’arte moderna che si ispira a modelli bizantini.
L’arte sacra tradizionale dell’Occidente viene spesso accusata di essersi discostata dalla spiritualità bizantina
per prendere vie razionali e realistiche che sono sfociate nel porre l’attenzione maggiormente sull’uomo
piuttosto che su Dio.
Curiosamente la nostra epoca impedisce ai pittori contemporanei di ispirarsi e di realizzare opere figurative
di arte sacra classiche in linea con la tradizione italiana che va dal 1400 al 1700, opere che si legano
perfettamente sia con la liturgia che con l’architettura occidentali.
Per quel che riguarda la pittura dell’ottocento occorre dire che ebbe un lento ma graduale declino causato
dalla nascita e dall’uso della macchina fotografica la quale portò l’artista a trascurare lo studio dell’anatomia
e di altre discipline utilissime. Infatti si ebbe l’impressione che la fotografia potesse sostituire tali studi, ma
non fu cosi e i risultati di questa pratica si manifestarono pienamente nell’arte del novecento. Inoltre
occorre dire che l’artista cominciò a non esprimersi più liberamente tramite un’idea dell’opera nata
completamente dal di dentro, ma fu costretto a mediarla con l’immagine che la fotografia gli forniva
dall’esterno e ciò andava a discapito della spiritualità e della qualità dell’opera che inevitabilmente perdeva
la sua unitarietà, specialmente per quel che riguarda l’impianto della composizione generale.
L’uso di fotografie spesso porta anche oggi l’artista a eccessi di realismo inopportuni per l’arte sacra la quale
necessita di un certo distacco dalla visione materiale a vantaggio di una certa spiritualità, come rimarca
opportunamente l’enciclica “Mediator Dei” nella quale Pio XII chiede un’arte che “eviti l’eccessivo realismo
da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra”.
Ciò che sorprende, comunque, è che gli artisti contemporanei si ispirino all’arte bizantina, chiaramente
appartenente a un periodo più remoto, piuttosto che all’arte italiana tradizionale.
Perché avviene questo?
Sicuramente perché l’arte bizantina non richiede uno studio approfondito della geometria, né dell’anatomia
e tanto meno della prospettiva. Questo spiega il proliferare di tanta arte pseudo-bizantina nella nostra
epoca. Improvvisamente molti artisti, le cui raffigurazioni erano ispirate all’action painting di Pollok,
all’espressionismo astratto di Rothko o all’astrattismo di Kandinski, sono passati tranquillamente ad un’arte
di ispirazione bizantina. Infatti per questi artisti passare alle rappresentazioni classiche sarebbe stato
impossibile, dato che questo tipo di pittura richiede un lunghissimo periodo di apprendimento, di almeno
20 anni, nello studio della tecnica utilizzata dai grandi maestri della tradizione occidentale.
Con l’avvento
delle varie correnti “moderniste” del novecento, purtoppo, si è perso gran parte del bagaglio che avrebbe
contribuito alla formazione di detti artisti, per cui molti di loro ripiegano verso la pittura bizantina più
stilizzata e più semplice da eseguire.
Sarebbe opportuno comunque comprendere per sommi capi il processo creativo utilizzato dai grandi artisti
della tradizione italiana, in modo da metterlo in relazione con l’arte bizantina e comprenderne lo sviluppo.
Esso viene spiegato in modo analitico e soddisfacente dal grande pittore e incisore del cinquecento tedesco
Albrecht Durër nel suo libro “Della simmetria dei corpi umani” il quale compì un viaggio in Italia
espressamente per apprendere il sistema utilizzato da tutti i grandi pittori italiani dell’epoca per le loro
raffigurazioni artistiche, specialmente per quel che riguarda la figura umana.
Detto sistema era
fondamentale, e lo è ancor oggi, per poter rappresentare la figura umana senza ricorrere ad un modello
vivente, specialmente quando era necessario raffigurare scorci arditi o gruppi di figure in movimento e in
relazione fra loro, cosa che non si potrebbe ottenere copiando dal vero e neanche con l’ausilio di fotografie.
Esso consisteva nel disegnare varie sezioni del corpo umano poste a vari livelli, quindi la faccia frontale e il
profilo del singolo pezzo anatomico, per ottenere in seguito, tramite le proiezioni ortogonali, i relativi
ribaltamenti e finalmente le numerose visioni in scorcio delle singole parti anatomiche.
Un procedimento lungo, complesso e meticoloso che richiedeva una pazienza e un’abnegazione fuori del
comune e che veniva condotto a riga e squadra. Questa pratica durava molti anni e ci fa comprendere il
motivo per cui i nostri grandi artisti dell’epoca diventavano anche esperti architetti. Infatti la pratica di
mettere in prospettiva un corpo umano richiede un’abilità infinitamente maggiore che non il mettere in
prospettiva un solido geometrico come un cubo, un cilindro o una piramide. Molti di loro erano infatti
pittori, scultori e architetti non a caso.
Pensiamo al campanile di Giotto, alla cupola di S. Pietro progettata da
Michelangelo, al colonnato del Bernini in piazza San Pietro, solo per citare alcuni esempi. Il metodo
descritto dal Dürer probabilmente sostituiva quello di Piero della Francesca descritto nel suo ” De
perspectiva pingendi”, il quale trattava solo la prospettiva del volto umano, mentre quello di Durër analizza
il corpo intero.
Un tipico esempio pittorico eseguito con questo sistema è il “Cristo morto ” del Mantegna.
Il problema vero purtroppo è stato causato da alcuni grandi storici dell’arte. Uno dei più importanti è
Kennet Klark il quale nel suo libro: “Il nudo” Aldo Martello ed. afferma a pag. 23, riferendosi al trattato di
Dürer: “non ho letto questo libro, ma ho dato solo un’occhiata alle illustrazioni come tutti i miei colleghi”.
Questa è un’affermazione grave, poiché tutta l’arte pittorica del ‘500, ‘600 e ‘700 e anche l’architettura
traevano origine dal procedimento descritto nel succitato libro.
Infatti anche l’architettura teneva molto in
considerazione la figura umana come capolavoro di Dio, applicandone le proporzioni nelle colonne, negli
archi a tutto sesto, nelle cupole e perfino nelle decorazioni a forma di S che volevano simulare la clavicola
umana. Inoltre non sarebbe possibile comprendere appieno la straripante esplosione artistica del
Rinascimento, del barocco e del rococò senza conoscere la tecnica che ha generato questi capolavori.
Nei
disegni di Luca Cambiaso (1527- 1585) si può osservare non solo l’applicazione del suddetto metodo, ma
anche una sua semplificazione. Si comprende anche quale sia la grande differenza che separa un artista
come Raffaello o Michelangelo – abituati sin dalla più tenera età allo studio analitico del disegno tramite le
costruzioni geometriche – e il Caravaggio che dipingeva esclusivamente dal vero.
Ma sarebbe opportuno anche cercare di capire la concezione spirituale che sottende le opere dei grandi
artisti bizantini.
Possiamo notare come le figure dei santi rappresentati erano essenzialmente piatte e
mancavano di chiaroscuro, dovevano infatti risultare completamente spirituali per cui il volume avrebbe
rappresentato un impedimento a questo scopo. Le mani e soprattutto i piedi dovevano essere piccoli a
indicare lo scarso attaccamento alla vita terrena. Di solito non si guardavano mai tra di loro, ma il loro
sguardo era fisso e si perdeva all’infinito a contemplare direttamente la divinità. In loro era assente
qualunque tipo di espressione mimica come il pianto, la tristezza, la gioia ecc. a rimarcare la loro
impassibilità verso le passioni umane. Inoltre era assente la prospettiva lineare e quella aerea.
La
prospettiva lineare mancava anche perché gli artisti di allora erano a digiuno di questa scienza riservata agli
architetti, tanto è vero che il Beato Angelico desiderava ardentemente imparare questa nuova disciplina e
non nascondeva questo suo desiderio, frequentando gli studi di coloro che ne erano già in possesso.
È noto
il dialogo che ebbe col Brunelleschi di cui era molto amico e le spiegazioni che ne ebbe da lui e che Deda
Pini riporta nel suo libro “Il Beato Angelico” (pagg. 49-50-51) concludendo così:
“Questa spiegazione così
evidente giovò molto all’Angelico, che comprese come occorresse adeguar la pittura all’architettura in
quanto ai volumi, mediante la prospettiva. I risultati di quella lezione si riscontrano sulle sue opere, che il
pittore domenicano eseguì in seguito e sulle quali si ammirano non solo le figure disposte su diversi piani e
proporzionate a essi nelle dimensioni, ma anche diversi motivi architettonici “.
Sicuramente comunque lo
studio e l’applicazione della prospettiva non tolsero nulla alla spiritualità delle opere del Beato Angelico,
anzi ci appaiono ancor più coerenti e libere.
Con Giotto e Masaccio l’immagine statica bizantina cominciò già a modificarsi e si notano alcuni dipinti con
architetture in cui viene applicata una sorta di assonometria o prospettiva anche se ancora intuitiva.
Le
figure dei santi cominciano a guardarsi tra di loro e nei volti si notano varie espressioni e atteggiamenti più
naturalistici e questo non tolse nulla alla pittura bizantina, ma la perfezionò solamente in quello che erano i
suoi scopi e cioè coinvolgere lo spettatore nella scena raffigurata e muoverlo alla preghiera. Non si tratta
quindi di una rivoluzione o di un cambiamento, ma solo di un perfezionamento tecnico atto a rendere con
più naturalezza ciò che già era in nuce nella pittura bizantina. Si nota anche una migliore comprensione del
chiaroscuro e i volumi si fanno più evidenti.
Michelangelo perfezionò ulteriormente questa visione inserendo la linea serpentina ad S di cui parla
Hogarth (1697- 1764) nel suo trattato “Analisi della bellezza”, facendo assumere alla figura umana il
movimento di torsione che faceva apparire come animate le figure. Quando ebbe finito il Giudizio
Universale e la gente fu invitata ad ammirare il capolavoro, pare che la prima emozione che essa ebbe fu di
paura e stupore insieme, dovuti al fatto che le figure dei demoni e dei dannati sembravano animate e si
aveva l’impressione che si staccassero dal muro per quanto erano naturali. Anche i volti vengono
rappresentati non solo di fronte di profilo o di tre quarti, ma anche nelle varie visioni dall’alto e dal basso in
scorci arditissimi.
Possiamo desumere da quanto detto che la pittura rinascimentale, contrariamente a ciò che si pensa, non è
in contraddizione con la pittura bizantina, ma anzi la porta a compimento come la larva, che mutandosi in
farfalla, non muta la sua natura.
Tutto questo ci fa capire come sia inopportuno da parte di alcuni artisti prediligere forme più
approssimative a forme più compiute.
Questo è anche il caso di Marko Rupnik.
Per comprendere la personalità dell’uomo Rupnik, è necessario analizzarne l’opera o meglio le brutte copie
di mosaici bizantini. L’arte infatti svela e riflette perfettamente ciò che l’artista realmente è nel suo io più
profondo.
Per quanto abbiamo detto sopra, comprendiamo bene che nelle opere di Marko Rupnik vi è solo
un’imitazione superficiale e puramente esteriore della pittura bizantina.
Non basta usare la tecnica del
mosaico con le sue belle tesserine dorate e inondare di luce gli sfondi, incorniciare di aureole a tutto
spiano i volti delle figure rappresentate per ottenere qualcosa di spirituale, o disegnare in modo scorretto le
prospettive degli ambienti ostentando una falsa ingenuità e purezza quasi infantili, per produrre qualcosa di
simile all’iconografia bizantina.
È necessario invece vivere una vita di preghiera, essere intrisi seriamente di
una spiritualità, sottoporsi a penitenze di vario genere prima di mettere mano ai pennelli, cose che erano
soliti fare i pittori bizantini. È necessario essere animati e mossi dallo Spirito Santo oltre che da una grande
fede e dal desiderio vivo di comunicarla ai fratelli senza puntare su guadagni astronomici.
E qui risuonano
come un’eco lontana le parole di Cennino Cennini nel suo “Trattato della pittura” “…all’arte non si perviene
con sete di guadagno, né per vanagloria…”
Purtroppo, come spesso accade, la contraffazione diventa evidente in alcuni particolari: in un piede troppo
grande ben piantato sul terreno, in una mano troppo carnale avezza più al possesso che alla preghiera, a
volti tutti identici, stereotipati, quasi fatti con lo stampino, all’espressione di un volto imbambolato più che
rapito in estasi mistica, ad occhi senza una scintilla di luce che pare contemplino le tenebre degli inferi
anziché la luce sfolgorante del Tabor, ad un disegno troppo arrotondato, affrettato e superficiale che a
volte sembra rasentare il fumetto.
Qualcuno ha voluto paragonare Rupnik a Caravaggio (riguardo la vita sregolata), ma su questo punto è
preferibile tacere.