Giorgio Esposito
PERCHÉ LA NOSTRA EPOCA NON HA GENERATO UN'ARTE NUOVA
L’arte della nostra epoca si distingue radicalmente da quella delle epoche passate, spinta da un imperativo incessante di creare qualcosa di nuovo a tutti i costi. Questo fervente desiderio di innovazione è testimoniato dall’incessante susseguirsi di tendenze, stili, correnti e sperimentazioni. Ma quali sono le motivazioni profonde dietro questo comportamento anomalo?
Esso nasce da una
visione distorta che impone all’arte di essere al passo con i tempi, relegandola a un ruolo
secondario, privata della sua nobile altezza: quello di mero registratore o specchio di un’epoca. Una
domanda inevitabile sorge spontanea: se oggi l’arte, la filosofia e persino la religione devono
limitarsi a riflettere e adeguarsi ai tempi, chi dunque ha il potere e la responsabilità di determinarli,
di guidarli e di plasmarli?
Paradossalmente, sembrerebbe che sia stata proprio questa ricerca accanita del nuovo a impedire
l’evolversi naturale dell’arte, a bloccarla, portandola a una stasi. Infatti, risulta molto strano che
nell’arco di un secolo nessuna di queste correnti artistiche che si sono susseguite si sia consolidata
in modo stabile e duraturo, generando una scuola o un sentire comune, come è sempre avvenuto. Ha
generato invece un particolare tipo di artista, mosso solo dal mito della personalità, dal desiderio di
distinguersi dagli altri e di essere originale.
La ricerca del nuovo ha portato, purtroppo, con troppa fretta e una certa arroganza a sbarazzarsi del
passato, a troncare i rapporti con esso, a non tenere conto e a ignorare le fatiche e i risultati
raggiunti dai nostri grandi predecessori. È fondamentale riconoscere che nell’arte il passato è
profondamente intrecciato con il presente e il futuro.
Alcuni esempi concreti possono illustrare meglio questo concetto. Immaginiamo di avere una pianta
di rose: il nostro compito sarebbe semplicemente quello di innaffiarne le radici se desideriamo che
produca nuovi fiori. Tuttavia, se decidessimo di tagliare le radici, la pianta appassirebbe presto. Allo
stesso modo, l’arte deve essere saldamente ancorata alle nostre radici, alla tradizione, se vogliamo
che dia vita a nuove forme espressive.
Analogamente, se un bambino volesse ignorare l’esperienza del padre col pretesto che è più
anziano, come potrebbe crescere? Dove troverebbe l’energia e la saggezza per maturare? Non è utile
eliminare il vecchio a favore del nuovo; piuttosto, entrambi devono coesistere, proprio come
nell’uomo adulto vive ancora il bambino da cui ha avuto origine. Come afferma Jury Tynjānov: “Il
vecchio permane nel nuovo; non solo viene riconosciuto, ma acquista un significato nuovo, una
funzione diversa” (Jury Tynjānov, Avanguardia e tradizione, Dedalo Libri, 1968).
L’arte contemporanea, col pretesto di raggiungere l’arte “pura”, ha eliminato purtroppo numerose
discipline utilissime e secolari, quali l’anatomia, la prospettiva, la tecnica pittorica e lo studio della
geometria del corpo umano. Ciò ha portato a un vuoto espressivo e alla stagnazione dell’arte stessa.
Sicuramente, in ogni epoca, l’arte ha sempre espresso idee nuove, ma lo ha fatto attraverso un
elemento fondamentale che non poteva e non doveva cambiare: il linguaggio e la grammatica. Non
è cambiando il linguaggio che si possono dire cose nuove, ma semmai cambiando il contenuto.
Infatti, una banalità rimane sempre tale, sia che venga espressa con un linguaggio nuovo, sia con un
linguaggio vecchio. Il linguaggio, anzi, dovrebbe rimanere, per quanto possibile, intatto e dovrebbe
essere quello conosciuto da tutti per favorirne la comprensione e la lettura. Nel campo delle arti,
invece, è accaduto l’opposto, per cui si è cambiato spesso solo il linguaggio inventato dagli artisti
stessi e conosciuto solo da loro, i quali poi hanno avuto la pretesa che lo potessero comprendere
tutti.
Molti di questi inconvenienti sono attribuibili al movimento filosofico-estetico noto come
“modernismo”, nato tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Il modernismo, contrariamente a
quanto si crede comunemente, è stato il principale ostacolo alla vera innovazione artistica, poiché
ha tentato di costruire qualcosa di nuovo sulle macerie della tradizione che esso stesso ha distrutto.
In questo contesto, le parole del filosofo Joseph De Maistre risuonano con una forza ancora
maggiore: “Distruggere non significa costruire”.
Sarebbe utile e opportuno comprendere le ragioni che muovono le correnti artistiche del XX secolo.
Esse essenzialmente hanno lo scopo di sopprimere la ragione per liberare le forze istintive e
passionali dell’artista. Tuttavia, la ragione svolge un ruolo cruciale nell’armonizzare le varie
componenti dell’animo umano. Funge da moderatrice, disciplinando la parte concupiscibile e le
passioni, mentre incoraggia attivamente la parte razionale.
Si è cercato, quindi, di soffocare la ragione eliminando in particolar modo il realismo e, di
conseguenza, la pittura figurativa, sostituendolo gradualmente con emozioni passeggere, ora
delicate ora violente, dall’Impressionismo al Fauvismo, all’Espressionismo, per passare poi
all’Astrattismo, negando completamente l’immagine e approdando finalmente alle tele bianche di
Robert Rauschemberg.
Il realismo richiede l’impiego costante della ragione, poiché l’artista deve esplorare anche ambiti
scientifici per rendere più credibili le proprie rappresentazioni. Questo processo iniziò già dalla fine
dell’Ottocento con l’Impressionismo, il quale cominciò a discostarsi dal realismo, prediligendo solo
l’emozione che la realtà suscitava nell’animo dell’artista. Questo atteggiamento portò
all’eliminazione del colore nero, compromettendo il chiaroscuro e appiattendo l’immagine. Nella
pittura tradizionale, invece, l’Impressionismo era già presente, ma si manifestava giustamente solo
nei bozzetti preliminari.
L’artista impressionista, spinto dall’urgenza di catturare l’attimo fuggente, abbandonò la tecnica
classica delle sovrapposizioni di colori e velature, troppo lenta e laboriosa, a favore della pittura
“alla prima”, più rapida ma meno efficace.
Con la corrente del Cubismo, che vide la partecipazione di Picasso, Braque, Duchamp e Severini, si
compie inoltre un ulteriore passo verso l’appiattimento dell’immagine. Se poniamo davanti ai nostri
occhi un oggetto di forma cubica, riusciamo a vederne solo tre facce, mentre le altre tre rimangono
nascoste. Il pittore cubista, invece, ha la pretesa di mostrare contemporaneamente tutte e sei le facce
dell’oggetto, ma per farlo è costretto ad aprirlo, appiattendolo inevitabilmente. Lo stesso fa per il
volto umano: lo raffigura contemporaneamente sia di profilo sia di fronte, sovrapponendo le due
immagini e appiattendolo inevitabilmente.
La mancanza di volume riduce il cubismo a un’arte decorativa, abbassandone il livello. Questo
errore è stato sottolineato da Gino Severini nel suo libro Dal cubismo al classicismo (Marchi e
Bertolli ed.). Severini non fu l’unico a rinnegare la corrente moderna a cui apparteneva. Lo stesso
fecero anche Carlo Carrà e De Chirico, il quale, abbandonata la metafisica, si avvicinò al
classicismo ispirandosi a Rubens. In molte opere, infatti, aggiungeva alla firma la frase latina:
“pictor classicum sum”.
Con l’Astrattismo, invece, il processo di appiattimento dell’immagine e il rifiuto della
rappresentazione della realtà è totale. L’inventore dell’arte astratta fu Kandinskij, che non a caso si
ispirò a correnti esoteriche e teosofiche, come fecero anche molti pittori simbolisti. Occorre inoltre
ricordare, per ultimo, la lettera che Pablo Picasso scrisse qualche tempo prima di morire al suo
amico Bernard Berenson, famoso critico d’arte, pubblicata poi nella rivista Neue illustrierte
Wochenschau del 24 ottobre 1971, in cui confessa quanto segue: “Ho soddisfatto questi amatori del
nuovo e dell’eccentrico con gli sghiribizzi che mi passavano per la testa e, quanto meno li
comprendevano, tanto più li ammiravano! Divertendomi con questi giochetti, divenni ricco e
celebre, e questo assai presto. Ma quando sono solo con me stesso, non ho il coraggio di ritenermi
un artista nel significato grande e nobile della parola. Sono solo un pubblico burlone che capisce il
suo tempo e ha sfruttato la stupidità, la vanità e l’avidità dei suoi contemporanei”. (Il testo di questa
lettera si trova anche nel libro di Giovanni Chimirri, Estetica e morale, ed. EDB Bologna, e nel
libro di N. Petruzzelis, Ricerca filosofica e pensiero teologico – Città del Vaticano, 1982).
In un contesto contemporaneo segnato da una fede indebolita e dall’influenza di correnti artistiche
confuse, l’arte sacra ne ha inevitabilmente risentito. Tuttavia, è essenziale per chi opera in questo
campo possedere una fede autentica e profondamente radicata, capace di generare solide virtù
tangibili.
Sono proprio queste virtù che dovranno condurre l’artista a un atteggiamento umile e rispettoso per
la tradizione, senza cedere alla smania di gloria o all’avidità di lauti guadagni.
Solo con questo approccio l’artista può intraprendere sentieri inesplorati, affrontare e superare le
enormi sfide insite nella creazione di un’arte sacra veramente degna di questo nome.