Don Nicola Bux:
Rupnik, tra Tutankhamon e Disney
Sebbene da parte di molti teologi e liturgisti si richiami di frequente il celebre principio lex orandi-lex credendi, a ricordare che tra la fede e la preghiera, tra la dottrina e la liturgia che hanno prodotto la musica e l’arte sacre cristiane, vi sia un nesso indissolubile, assistiamo da decenni alla rottura e discontinuità tra essi. L’innovazione ha cancellato la tradizione, invece di mantenersi in equilibrio con essa, la riforma è diventata rivoluzione, in quanto non è stata condotta in base a criteri di scelta dell’antico. La Chiesa cattolica è a un bivio: o conservare innovando, cioè riproponendo mutatis mutandis, la tradizione delle immagini nel luogo di culto, o replicare malamente l’iconografia orientale oppure l’aniconicità protestante. Ad evitare tale rischio e riparare i guasti ove già consumati, urge la comprensione dell’unità sussistente tra simbolismo liturgico dei riti, loro interpretazione mistagogica e disposizione iconografica. Ne dipende la comprensione della verità cattolica. L’icona è la presenza divina, una finestra sul Mistero, dice l’Oriente slavo: serve per indicare all’uomo: qui c’è Dio. E se c’è Dio, cosa si fa: si deve coltivare il rapporto (colere) con lui: ecco il culto.
Il card. Thomas Spidlik, uno dei noti teologi cattolici della spiritualità orientale, era contrario alle icone orientali nelle chiese occidentali, perché esse si possono comprendere perfettamente solo nella liturgia orientale; senza questa, le icone sono oggetti certamente belli, straordinari, ma, staccati dal contesto per il quale vengono creati, perdono il loro significato. Si capisce subito che da noi le icone sono estranee al contesto, ma inserite per esotismo. Certamente le icone non riempiono il vuoto creato dalla iconoclastia postconciliare e dalla confusione vigente nella liturgia, anzi, paradossalmente le aggravano; anche perché il popolo non le capisce e non le venera, e noi sappiamo che le icone esistono per essere venerate. Infatti una immagine sacra non è fatta per il gusto dell’artista, ma per la venerazione di colui che rappresenta: il Signore, la Vergine, i Santi.
Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell’arte come nella liturgia. Così si andarono definendo tre tipologie di immagini cristiane: simbolica, allusiva ai sacramenti e parabole; narrativa, di episodi biblici, evangelici o di santi; iconica, cioè immagini per il culto. Proprio su quest’ultimo tipo si aprì la discussione nell’VIII secolo, sfociato nell’iconoclasmo, con conseguenze drammatiche sulla tenuta della Chiesa d’Oriente; ma fu gradualmente confutato riaffermando il dogma dell’incarnazione, col concilio Niceno II(787), che tra i suoi principali attuatori ebbe san Giovanni Damasceno.
Il padre Rupnik, non so se si sia posto il quesito: dai miei mosaici, il fedele è indotto a venerare i prototipi che rappresentano, o si ferma solo all’ammirazione estetica? Se poi dinanzi ad essi si svolge la liturgia, questa non diventa una “danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”(J.Ratzinger)? Si pensi ai mosaici della cripta dove è esposto san Pio da Pietrelcina, che hanno portato ad etichettarla come “tomba di Tutankhamon”.
C’è un modo, invece, di fare arte sacra, che Dio stesso ha rivelato, che mantiene in unità il rito, l’arte e l’interpretazione della liturgia, per non scadere in “un imparaticcio di usi umani”(Is 29,13), cioè nell’idolatria. L’incarnazione del Verbo – non quella dell’artista – è la condizione senza la quale non ci può essere liturgia e nemmeno iconografia. Ecco delineato lo spirito della liturgia, non solo orientale, collegato al concetto di culto e di liturgia celeste e terrena, al mondo visibile come segno dell’invisibile. Ecco il mistero della presenza sacra nell’icona come, seppur ad altro livello, nell’Eucaristia. Così la presenza divina guarisce l’uomo e lo trasforma in santo, lo santifica.
La teologia orientale sostiene la deificazione dell’uomo in Cristo. Se si prescinde da questo e dall’incarnazione del Verbo, la liturgia e l’iconografia scadono nella mitologia. Lo sviluppo in essa dell’allegoria, vuol rendere presente il mistero di Cristo, dal suo ingresso nel mondo al suo ritorno per giudicare il mondo. La liturgia è capace di velare e svelare, di celare e di far capire, perché non è possibile comprendere tutto nello stesso tempo; molte cose si capiranno solo successivamente, dice Gesù agli apostoli. La liturgia e le immagini servono a sentire il “Dio vicino”, che è il cuore del cristianesimo, a differenza dell’ebraismo che lo attende ancora o dell’islamismo che lo considera irraggiungibile. Gesù è il Dio vicino, che entra nella vita dell’uomo.
Quindi la liturgia e l’iconografia cristiana non possono essere mitologiche o tendenti all’astrazione. Si guardino gli occhi nelle figure di Rupnik: sono indefiniti come quelli dei personaggi disneyani; ciò condiziona le figure, facendo scadere la scena quasi a raffigurazione gnostica.
L’iconofilia che ha preso i latini sa di patologia. Avendo abbandonato o addirittura distrutto la tradizione figurativa occidentale, si cerca di riempire il vuoto, prendendo le icone orientali e mettendole nel nostro contesto culturale: una de-culturazione. L’icona orientale nella liturgia romana è un pesce fuor d’acqua! Eccezion fatta per quelle icone arrivate a noi nel Medioevo quando la liturgia romana era più simile alla bizantina e che hanno avuto la fortuna di godere della venerazione dei fedeli. Si dirà che non favoriamo lo scambio tra l’oriente e l’occidente. Non è così: deve svilupparsi la conoscenza delle rispettive tradizioni, ma rimanendo nella loro differente ricchezza; proprio questo e non il bricolage favorisce lo scambio.