Il Pensiero Cattolico

18 Novembre 2024

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Chiara Troccoli Previati

In Rupnik manca la reciprocità dello sguardo tra il divino e l’umano

L’arte è sempre contemporanea, cioè è figlia del tempo nel quale vivono gli artisti che la producono. Ecco perché, se in questo momento ultimo del nostro mondo, da diversi decenni, Dio viene relegato ad un ruolo marginale o addirittura spesso dimenticato, l’arte sacra cristiana vive grandi difficoltà di inclusione.

In questo vuoto che si è creato in Occidente l’arte bizantina, russa, ortodossa, che è sempre uguale a se stessa, fedele ai suoi rigorosi, riconoscibili, sacri canoni, immutabili per scelta, ha costituito un saldo punto di riferimento cui l’Occidente ha guardato perché li trovava un’ancora di certezza di trasmissione e condivisione dei valori di fede. Sono anni ormai che noto come le chiese siano spesso spoglie, dimentiche del saldo antico sodalizio tra arte fede e liturgia che la Chiesa centrale non ha saputo, nonostante inviti e discorsi con gli artisti, rivitalizzare e, se opere d’arte nuove vengono commissionate, si tratta per lo più di icone, la cui sacralità è indiscussa. Ma sappiamo bene che quelle icone sono espressione del mondo culturale e religioso cui appartengono col quale noi siamo, per sentito anelito ecumenico, in contatto, ma non appartengono alla nostra tradizione d’arte sacra che ha una storia lunga quanto il cristianesimo. E’ nell’arte paleocristiana che sono nati capolavori immortali i quali animavano e ancora animano la fede di chi entri in un luogo sacro e sente quei testi iconici perfettamente aderenti ai luoghi che essi stessi esaltano, celebrando la Verità.
Ci sono artisti contemporanei d’arte sacra che, fedeli alla tradizione occidentale, operano nella conoscenza dei simboli, della cultura cristiana, della fede, ma che sono spesso al di fuori dei circuiti di notorietà. Non è il caso di uno degli artisti presenti all’ultimo incontro in Vaticano promosso da Papa Francesco, Gian Maria Tosatti, il quale, alla domanda rivoltagli da un giornalista – Cosa vi aspettate ora voi, come artisti? – risponde: – C’è molta strada da fare. In questi decenni, se non secoli, di percorsi separati tra arte e Chiesa si è accumulata una distanza. – (Alessandro Beltrami su Avvenire.it, 23 giugno 2023). Ecco: è di questa distanza che voglio parlare, ma non solo. Sento l’urgenza da tempo di provare a trovare soluzioni per colmare questa distanza; ne hanno bisogno gli artisti di fede che non temono di auto-marginalizzarsi dal mondo dell’arte tout court dipingendo o scolpendo opere d’arte sacra cristiana ma ne ha bisogno soprattutto la Chiesa occidentale, per rimettere i tasselli di un puzzle scompigliato al posto giusto. Aggiungo che ne hanno bisogno anche i fedeli che molto spesso riferiscono di sentirsi ‘spaesati’ quando entrano in una chiesa moderna.
Forse è necessaria una rieducazione ai valori, alle regole e canoni espressivi basati sulla comunicazione attraverso il simbolo che consente di svelare l’invisibile nel visibile, proiettato verso la speranza (certezza) dell’oltre cristiano.
Forse sono necessari Concorsi pubblici, Biennali, Triennali, dotati di giurie all’altezza di verificare il contenuto sacro autentico delle opere a concorso. Ricordiamo la Firenze del ‘400 in cui venivano banditi concorsi dalle varie Corporazioni di Arti e Mestieri attraverso i quali sono venuti alla luce e sono stati donati alla storia dell’uomo artisti del calibro di Donatello, Brunelleschi e potrei continuare in un lunghissimo elenco. Dove sono oggi i ‘patrocinatori’ anche laici di allora che commissionavano arte sacra e di soggetto religioso?
Forse c’è bisogno di valorizzare attraverso Mostre gli artisti d’arte sacra che hanno operato nella giusta direzione per educare a un discernimento necessario. Ricordo i saltuari e poco incidenti interventi del Vaticano alla più importante esposizione d’arte italiana, la Biennale di Venezia.
Mi aspetto moltissimo dai dibattiti che possono animare il mondo culturale della relazione tra arte e Chiesa dalla mostra inaugurata a giugno del corrente anno nei Musei Vaticani: “Contemporanea 50. La collezione d’ Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani 1973-2023”.
Personalmente ritengo che il supporto e contributo culturale offerto mensilmente da una rivista come “I Luoghi dell’Infinito” e da alcuni blog in rete come Il Pensiero Cattolico siano validi e importanti, anzi fondamentali. Ma ci vuole un programma operativo centrale che ridia luce all’UCAI e ristabilisca regole attraverso la Pontificia commissione d’Arte sacra. Un lavoro imponente che sia veicolato fino alle micro-realtà ecclesiastiche.
Voglio parlare però anche, inserendomi in un dialogo sollevato da tre articoli letti recentemente (dell’artista Giorgio Esposito e don Nicola Bux apparsi su Il Pensiero Cattolico, e di Luisella Scrosati su La Nuova Bussola Quotidiana ) del caso di un artista che si è introdotto in questa ‘distanza’, in questo iato vero e proprio, quasi generalizzato, conquistando commissioni su commissioni in luoghi molto significativi e cruciali della nostra fede, ma non solo, aiutato probabilmente dal suo essere un sacerdote, imitando esteriormente e apparentemente gli stilemi dell’arte orientale delle icone, forte di quella tendenza di scelte ecclesiastiche da me precedentemente esplicitata. Come è potuto accadere che nessuno si sia accorto e abbia contestato la banalizzazione del linguaggio espressivo delle icone, la loro effimera manipolazione prodotta nelle opere di Marko Ivan Rupnik?
Vorrei proporre la mia analisi delle sue opere che non mi hanno mai convinta, essenzialmente, per gli sguardi privi di spiritualità dei suoi personaggi sacri. La sovrabbondanza, inoltre, di colori vivaci e di tessere dorate mi trasmetteva uno stordimento depistante, l’esatto contrario di quel che un’opera d’arte sacra deve comunicare. Quelle pupille nere che in tanti hanno negativamente commentato paragonandole a quelle dei personaggi dei cartoni animati, mi appaiono come il luogo del buio dell’anima, chiuso alla luce che Cristo ha affermato di essere. Non appartengono né alla tradizione artistica occidentale, né a quella orientale: sono una invenzione – negazione, di tutto. Come possono pupille nere, volti inespressivi che non mirano all’oltre, salvaguardare lo sguardo evocativo del sacro?
Come può mai avvenire in queste opere una reciprocità dello sguardo, così come nelle icone, dove la prospettiva inversa fa affacciare il divino nello spazio-tempo dell’umano, dove si ha l’impressione che la scena venga verso lo spettatore quasi ad incontrarlo? Qui sta il significato teologico della scelta degli iconografi. É Dio che ha l’iniziativa, è Lui che viene verso l’uomo per rivelarglisi. Il fondo oro delle icone riflette la sacralità dello spazio divino. Non a caso sono state definite le “finestre” da cui il divino si affaccia.
Nelle opere di Rupnik la sovrabbondanza dell’oro, dappertutto, confonde, disorienta, invade. Nella grammatica compositiva dello spazio delle icone, completamente diversa da quella occidentale, gli accorgimenti che mirano al naturalismo della rappresentazione, cioè che costruiscono l’illusione di realtà, come l’uso della prospettiva di tradizione occidentale, del chiaroscuro, della tridimensionalità, dell’armonia delle parti, non fanno parte dell’iconografia orientale in quanto ritenuti contrari alla natura sacra dell’icona. Nelle opere di Rupnik c’è una adesione formale e superficiale allo spazio prospettico delle icone, una semplificazione all’occidentale, non sempre coerente all’interno della stessa scena, della prospettiva, della postura del corpo che non rispetta nel suo complesso i criteri espressivi dell’iconografia. Un’altra libertà assunta da Rupnik risiede nell’uso del colore degli abiti della Vergine Maria: in Occidente simbologia sacra vuole che il rosso sia il colore dell’umanità e l’azzurro della divinità, tanto è vero che Cristo ha la veste azzurra, in quanto Dio, e il manto rosso in quanto ha assunto natura umana; viceversa, la Vergine ha la veste rossa e il mantello azzurro a sottolineare la sua origine umana e il suo essere stata prescelta per la venuta al mondo di Gesù, il suo essere diventata divina. Nella tradizione orientale il mantello (maphorion) di Maria è di color porpora cupo; il colore porpora, da sempre colore regale, ha in sé la sintesi di rosso e azzurro dunque indica la totalità, deriva infatti dall’unione di rosso e blu. Copre quasi completamente il corpo e il capo di Maria lasciando trasparire talvolta la veste sottostante celeste.
Il maphorion ha tre stelle dipinte sul capo e sulle spalle di Maria che simboleggiano la Aeiparthenos, o perpetua verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. Tengo a ricordare che l’icona è sotto la diretta giurisdizione della Chiesa che obbliga l’artista a non inventare secondo suo estro il suo personaggio. Questo controllo si esercita durante la benedizione richiesta per ogni icona nuovamente dipinta. Allora mi chiedo a quale tradizione afferisca Rupnik nella sua rappresentazione degli abiti della Vergine Maria? Alla orientale o alla occidentale? Continuo a non trovare coerenza operativa nelle sue rappresentazioni che sembrano ritagliarsi una ‘creativa’ appartenenza alla tradizione iconografica orientale, con spunti di realismo occidentale, dimentico del tradizionale simbolismo cristiano, con uno sguardo al mondo cartoonistico spersonalizzante.
Cosa ha a che fare tutto questo col sacro?

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