Il Pensiero Cattolico

12 Novembre 2024

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Don Nicola Bux:

La Chiesa è come una madre, non potremmo ripudiarne l'appartenenza,
anche se cadesse in una condizione miseranda

Le diatribe circa il Vaticano II, se sia stato più o meno dottrinale o pastorale, e circa i pastori, cioè papa e vescovi ‘regnanti’, oscillano tra adulazione e rifiuto perché non si conosce cos’è il Magistero e quali i suoi gradi. “Il Papa pensò certo a un concilio pastorale, di aggiornamento, ma ciò non deve intendersi come qualcosa di pratico, dinamico, quasi separato dalla dottrina. E’ inconcepibile in effetti una pastorale senza dottrina, lontana dalla Tradizione ecclesiale” (N.Spuntoni, Marchetto: Il concilio va letto nella continuità della Chiesa, La Nuova Bussola Quotidiana, 10 ottobre 2022). Com’è noto, il deposito della fede, contenuto nella sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura è stato affidato dagli Apostoli alla totalità della Chiesa(CCC 84). L’ufficio di interpretare – ossia di insegnare soltanto ciò che è stato trasmesso dagli Apostoli – lo ha il solo Magistero, costituito dai vescovi in comunione col papa: che non è al di sopra della Parola di Dio, anzi “piamente l’ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone”(Dei Verbum 10). Solo i dogmi – e le verità che hanno connessione con essi – richiedono l’irrevocabile adesione di fede, perché in tal caso il Magistero gode del grado d’infallibilità, il più alto, che si estende anche alla dottrina morale e ai precetti della legge naturale. Non così per il Magistero ordinario e i suoi diversi gradi. Rimando per questo all’importante contributo del prof. N. Barile (La Chiesa e il papa: lettura aristotelico-tomista della situazione attuale, 17 agosto 2022, www.ilpensierocattolico.it7new).

Può accadere che i pastori, papa e vescovi, tuttavia, non esercitino il loro insegnamento secondo i criteri suddetti.

S. Gregorio Magno affronta così, al suo tempo, l’inettitudine dei pastori e mi sembra riguardi anche l’oggi: “vi sono persone che ascolterebbero la buona parola, ma mancano i predicatori. Ecco, il mondo è pieno di sacerdoti, e tuttavia si trova di rado chi lavora nella messe del Signore;… Spesso infatti la lingua dei predicatori perde la sua scioltezza a causa delle loro colpe; spesso invece viene tolta la possibilità della predicazione a coloro che sono a capo per colpa dei fedeli… Non è sempre facile però sapere per colpa di chi al predicatore venga tolta la parola. Ma si sa con tutta certezza che il silenzio del pastore nuoce talvolta a lui stesso, e sempre ai fedeli a lui soggetti. Vi sono altre cose…che mi rattristano profondamente sul modo di vivere dei pastori. E perché non sembri offensivo per qualcuno quello che sto per dire, accuso nel medesimo tempo anche me… Noi abbandoniamo il ministero della predicazione e siamo chiamati vescovi, ma forse piuttosto a nostra condanna, dato che possediamo il titolo onorifico e non le qualità. Coloro che ci sono stati affidati abbandonano Dio e noi stiamo zitti. Giacciono nei loro peccati e noi non tendiamo loro la mano per correggerli. Ma come sarà possibile che noi emendiamo la vita degli altri, se trascuriamo la nostra?”(Dalle Omelie sui vangeli). Gli interventi susseguitisi su Duc in altum postulano, a mio sommesso avviso, una questione di fede e quindi di metodo. La Chiesa è come una madre, non potremmo ripudiarne l’appartenenza, anche se cadesse in una condizione miseranda. Di questo erano convinti i Padri, come appunto Cipriano, che aiutò papa Cornelio a combattere le eresie, che circolavano dentro la Chiesa non meno che in età apostolica. Analogamente accade per la nostra appartenenza alla nazione, qualora i governanti pro tempore fossero discutibili, se non peggio. Chi potrebbe affermare: non sono più italiano, nonostante fosse nato, parlasse la lingua e operasse nel territorio italiano?
Quando taluni ecclesiastici usano invettive contro il papa e altri uomini di Chiesa, rischiano di travolgere la funzione insieme a colui che la ricopre. I medievali, come Dante, sapevano benissimo che ciascuno deve salvare la propria anima, e così distinguevano nel papa come “due corpi”: la persona peccatrice dall’ufficio che è sacro.
Per quanto arduo, se si dicesse la verità con carità, come appunto fanno alcuni ben noti Cardinali, non si creerebbe scandalo e ulteriore divisione tra i fedeli. Non sarebbe, questa, una modalità in linea con quella usata dai santi riformatori, che amavano piuttosto rivolgere implorazioni e suppliche, anche quando fustigavano i costumi? La Chiesa, infatti, si rinnova con l’umiltà del servizio e la santità della vita. Per questo, sull’Amoris laetitia, i quattro Cardinali hanno usato lo strumento dei Dubia, perchè rispettoso dell’autorità pontificia. Anche se non hanno ricevuto risposta, gli interrogativi restano, e qualcuno dovrà rispondere prima o dopo il papa pro tempore. Non bisogna aver fretta di separare il grano dalla zizzania, anche nella Chiesa. Tutto questo spiega l’affermazione extra ecclesia nulla salus (cfr LG 14; CCC 846). Altrimenti chi si salverebbe dentro una Chiesa fatta di peccatori, anche tra gli ecclesiastici? Ma la Chiesa è fatta soprattutto di santi, che controbilanciano, per così dire, i primi. Infatti, essa è una sola e indefettibile, ossia, quale corpo mistico di Gesù Cristo, non può venir meno alla sua natura teandrica(umano-divina). E’ questo un dogma, ossia un punto fermo.
Le chiese ‘self-made’ nate dalle varie scissioni durante due millenni, hanno già fallito, ha ricordato Benedetto XVI, perché non possono togliere nulla alla Chiesa una, santa, cattolica, apostolica che professiamo nel Credo. Per sanare le ferite umane inferte all’unione tra i cristiani, ci vuole la pazienza dell’amore. Dunque, un vero cattolico, non si deve nemmeno porre la domanda: fuori da “quale” Chiesa (cfr il punto 6 Rimanere nell’unità del tutto, in IPC “La forma d’insegnamento della Scuola Ecclesia Mater”). Ecco il metodo cattolico.
Certo, è utile il dibattito, ma senza scindere verità e amore.
Il popolo è confuso, smarrito, perplesso, quindi facilmente a rischio di amoralità e immoralità, perchè i pastori non insegnano la fede e la vita in Cristo, ossia la morale, ma la legalità, la sostenibilità, l’inclusività, la sinodalità… Ci vorrebbe una grande missione popolare, in Italia, e non solo, altro che, per annunciare Gesù Cristo.

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Recensione del libro di Peter Kwasniewski, "La vera obbedienza nella Chiesa - (ed. orig. True Obedience in the Church: A Guide to Discernment in Challenging Times, Manchester NH, 2021)

Il libro di K. La vera obbedienza nella Chiesa come gli altri suoi scritti su OnePeterFive, è un testo battagliero, scritto con piglio polemico e vivace, di sicuro ambito tradizionalista (anche se riflette un certo tradizionalismo), ma non privo dei consueti difetti dell’autore.

Ovvero una certa superficialità e la tendenza a semplificare. Un premessa è d’obbligo. K. dice che l’obbedienza ai propri superiori nella Chiesa deve essere subordinata alla 1) fiducia riposta o meno in essi e 2) alla legittima subordinazione ovvero al riconoscimento dei costumi e delle tradizioni (sic! vedi pp. 8-9). Dove ricavi questi due criteri molto personali, non lo spiega chiaramente: certamente, non appartengono al Magistero, che dice altro a tal proposito, ma, piuttosto, sembrano due principii molto arbitrari o, meglio, scelti per tirare certe conclusioni.

Sorvolando quindi sui temi della liturgia, dove il rito nuovo è interpretato in termini esclusivamente negativi in chiave lefebvriana (p. 26), bisogna soffermarsi sul luogo comune del “bene comune” (si scusi il bisticcio) contrapposto all’autorità che scientemente vìola tale bene, così come esposto da S. Tommaso (pp. 16-17). E’, a sua volta, un luogo comune ricorrere a questo argomento ma, se si legge con attenzione il filosofo medievale, senza estrapolare frasi dal ricco contesto, si vede bene come il bene comune (in senso politico, va aggiunto, ovvero la famiglia e l’individuo) ha bisogno dell’autorità e della responsabilità della legge umana e del governo per prosperare, che ne assicurino cioè la protezione. Dunque non si possono contrapporre tout court bene comune e autorità. Anche perché ai tempi di S. Tommaso, contrapporsi all’autorità significava ribellarsi ai potenti baroni feudali.

Lo stesso vale per un altro esempio portato dall’autore e cioè quello del rapporto fra l’autorità e il fedele e la subordinazione del figlio nei confronti del padre (pp. 7-8, 11-12). Secondo K. il modello è il medesimo. Il fedele/figlio può disobbedire all’autorità/genitore se il comando ricevuto va contro la legge divina o naturale. Ma questa interpretazione di Ef 6, 1, a ben vedere, non ha nulla di rivoluzionario: il comando di obbedire non è mai assoluto ma, diversamente da quanto la gente pensa di solito, condizionato: va cioè sempre confrontato con il contenuto della legge divina e/o quella naturale: perché «dobbiamo ubbidire a Dio, piuttosto che agli uomini», come dice san Pietro (At 5,29).

Allo stesso modo, allora, siamo obbligati ad accettare l’insegnamento non infallibile del romano pontefice (perché è di questo che si vuol parlare, sostanzialmente) solo a condizione che agisca nell’ambito della sua autorità secondo la legge divina. Se insegnasse qualcosa di contrario a una legge superiore in cui credere, allora l’obbligo di dare il consenso religioso a questo insegnamento cederebbe all’obbligo più severo che obbliga i fedeli a credere alla parola di Dio e – punto assai cruciale, trascurato da K. – ad attenersi all’insegnamento infallibile della Chiesa. Questo è il punto. Non ribellarsi tout court e basta. Se no veramente l’obbedienza non è più una virtù, per parafrasare un altro testo d’altri tempi.


A queste puntualizzazioni vanno aggiunte queste altre di tipo canonistico.

K. sembra distaccarsi dalla nozione di comunione ecclesiale, concependo il rapporto tra fedeli e Pastori in termini puramente dialettici e di contrapposizione. Il can. 212 del Codice di Diritto Canonico offre norme di sapiente equilibrio. Il primo paragrafo ricorda che i fedeli, in modo responsabile, ossia “consapevoli della propria responsabilità” sono tenuti ad osservare “con cristiana obbedienza” ciò che i sacri Pastori, in quanto (e nella misura in cui) “rappresentano Cristo”, dichiarano “come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa”. D’altra parte il secondo paragrafo sancisce che i fedeli sono liberi di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri. Il terzo paragrafo poi addirittura prevede che i fedeli, in rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di ciascuno, abbiano non solo il diritto, ma addirittura il dovere di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, fatti salvi l’integrità della fede, dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo presente l’utilità comune e la dignità delle persone.

Come si vede, la stessa normativa è piuttosto larga nel riconoscere ai fedeli non solo il diritto ma addirittura il dovere di intervenire nelle discussioni relative al bene della Chiesa, avendo però come presupposti “scienza, competenza e prestigio” (evitando le chiacchiere da bar), ed usando modalità che siano rispettose non solo per i Pastori, ma per la dignità di ogni persona, e naturalmente nei limiti di una fede e di costumi integri. L’obbedienza non si oppone quindi alla coscienza e alla responsabilità, che incombe a ciascuno, che sia però dotato di una adeguata scienza e competenza e che sappia mantenersi nell’ambito di uno stile di autentica comunione. Questa norma deve esser poi letta con quelle successive, relative ai diritti e ai doveri dei fedeli, ossia fino al can. 223 compreso. Atti di ribellione, di disprezzo delle norme e dei provvedimenti, al di fuori dei legittimi canali di impugnazione, non solo non appartengono ad una logica di comunione, ma si distaccano anche dal principio di realtà, perché portano inevitabilmente all’applicazione di sanzioni, anche gravi e gravissime, che è utopico pensare possano essere superate in un fantasioso prossimo futuro. Purtroppo molti tendono a farsi una Chiesa immaginaria, contrapposta a quella reale, fatta di santi e peccatori, come noi tutti siamo.

Insomma: K. va letto perché ha sovente buoni spunti di riflessione, ma non andrebbe consigliato, soprattutto a chi non dispone delle chiavi di lettura adeguate per affrontare un autore che è un sincero cristiano, indubbiamente coinvolgente, in quanto schiettamente militante, ma non sempre edificante per il suo piglio rivoluzionario, soprattutto per i tanti perplessi di oggi.

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Don Alberto Strumia:

Non è il titolo di “stranieri” a rendere automaticamente meritevoli di lode,
ma la fede in Dio e in Gesù

Omelia della Domenica XXVIII del Tempo Ordinario

Le letture di questa domenica parlano di alcuni personaggi “stranieri”, Naaman il siro e il samaritano, uno dei dieci lebbrosi guariti da Gesù.


All’epoca del profeta Eliseo (prima lettura) come al tempo di Gesù (Vangelo) questo appellativo – “stranieri” – indicava coloro che non appartenevano al popolo di Israele.

Oggi, da parecchi anni, con questo termine ci si riferisce, ormai abitualmente ed esclusivamente ai cosiddetti “migranti”, provenienti da diverse etnie, culture e religioni, aree geografiche. E per ragioni che, solo in pochi casi, sono l’effettiva necessità di fuggire da situazioni di guerra oggettivamente pericolose. Ma non è questo il momento né il luogo per addentrarsi in questo aspetto del problema.

Qui, quanto è importante sottolineare – in riferimento alle letture della liturgia di questa domenica – è il fatto che, a differenza di quanto si fa strumentalmente oggi, non è il titolo di “stranieri” a rendere automaticamente meritevoli di lode e di apprezzamento Naaman, il siro, da parte del profeta Eliseo (nella prima lettura) o il lebbroso samaritano che ritorna per ringraziare, da parte del Signore (nel Vangelo), ma è la fede in Dio dimostrata dal primo e la fede in Gesù dimostrata dal secondo.

Non dovrebbe, allora, anche il popolo cristiano dei nostri giorni, con i suoi pastori per primi, adottare lo stesso criterio? Perché, allora, si usano criteri ben diversi?

Ti apprezzo non tanto perché il titolo di “straniero” ti dà una sorta di “patente di innocenza”, in quanto membro di uno strano, immaginario nuovo “popolo eletto”, o nuovo “proletariato” che sia, facendo di te un privilegiato, quasi tu fossi esente dal peccato originale. E questo semplicemente perché non lo sei, esattamente come non lo sono io!

È certamente doverosa l’accoglienza, in proporzione alle disponibilità di chi accoglie, ed è altrettanto doveroso, però, procedere razionalmente.

La Scrittura dice, in proposito: «Se, mietendo il tuo campo, vi avrai dimenticato qualche covone, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lo straniero, per l’orfano e per la vedova» (Deut 24,19). Non sarà però, per il solo “straniero”, a spese di chi è bisognoso in casa tua (l’orfano, la vedova, il disabile con chi lo assiste, e altri ancora!).

Attenzione all’ideologia dell’accoglienza forzata dello “straniero”, internazionalemente imposta!

Anche perché, chi si comporta con lo “straniero” in questo modo, ben di rado lo fa senza secondi fini, politici, culturali, ideologici, anticristiani ed economici…

Il Signore ha mostrato grande apprezzamento per coloro che hanno avuto fede in Lui, a qualunque popolo ed etnia appartenessero, al suo popolo come ad altri popoli. Ed ha dimostrato umana meraviglia di fronte a coloro i quali, davanti alla straordinarietà del Suo insegnamento e di ciò che Egli faceva, si sono convertiti a Lui, abbandonando le loro religioni di appartenenza, ormai dimostratesi del tutto inadeguate e per molti aspetti addirittura false.

La dichiarazione di Naaman, il siro, che troviamo nella prima lettura, lo documenta: «Il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore». Una chiara testimonianza di “conversione”.

Nel Vangelo, il lebbroso Samaritano, guarito, diede un’altrettanto esplicita testimonianza di conversione: «Si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo».

Mentre gli altri nove, pur appartenenti al popolo di Israele, come si può desumere dalle parole stesse di Gesù («Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?»), si sono comportati come titolari del diritto alla guarigione, senza dare un minimo di segno di fede in Dio che miracolosamente li ha guariti per le parole del Signore. Tornare a Cristo serve a tutti: stranieri convertiti e cristiani distratti dall’impegno sociologico!

Nella seconda lettura, san Paolo rivolge a Timoteo una raccomandazione che vale ancor più per noi oggi, per chi deve istruire e guidare come per chi deve imparare ad essere cristiano: «Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, […] come io annuncio nel mio vangelo». Quasi ingiungesse di non azzardarsi a sostituire il culto verso di Lui, unico e vero Dio, con il mito pagano dello “straniero”, o dell’ambiente, o della natura adorati al posto Suo.

Perché non funzionerà, né per ingraziarsi lo “straniero”, se non si converte alla vera religione, né per l’ambiente e la natura se non si riconosce Dio che li ha creati. Ma per condurre anche lo “straniero” alla fede, si deve parlargli di Cristo, insegnargli chi è veramente e non ritirarsi in un relativismo pseudoreligioso, come è divenuto di moda fare, oggi, anche nelle chiese che dovrebbero essere cristiane.

I santi hanno annunciato e testimoniato Cristo con la loro parola e la loro vita, e non si sono mai accontentati di un sincretismo pagano in cui si mescolano elementi presi da tutte le parti confondendo le idee, già poco chiare, di coloro che ancora vorrebbero essere cristiani.

In una situazione tanto confusa e pasticciata occorre, più di sempre, chiedere soccorso alla Madre di Dio, Maria Santissima, soprattutto in questo mese di ottobre a lei particolarmente dedicato, perché mostri a tutti gli uomini della terra il suo Figlio, l’unico Salvatore, in grado di guarire l’umanità di oggi dalla quella lebbra dello spirito, di origine satanica, che è peggiore di qualsiasi pandemia del corpo.

Con le parole dell’antica preghiera dalla Salve Regina, anche ora la invochiamo: «Mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo Seno, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!».

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La personale di G. Gasparro al Museo Diocesano di Molfetta

Don Nicola Bux:

PENSIAMO CATTOLICO. Tra guerra e pace, il Fatto su cui dobbiamo fissare lo sguardo è:
il Verbo si è Fatto carne

Tra guerra e pace, il Fatto su cui dobbiamo fissare lo sguardo è: il Verbo si è Fatto carne. Fatto! Per cosa? Salvare il popolo dai peccati. Questa è la conditio sine qua non, per la salvezza del mondo e dell’intero universo, e la fede in queste parole, dice Dostoevskij. Uomini come Matteo lo capirono, hanno lasciato tutto e seguirono quell’Uomo in cui abita la pienezza di Dio, Gesù. E dedicarono la vita ad annunziare quel Fatto. La Chiesa non ha altra ragion d’essere se non questa. Se parla d’altro, se va dietro guerra o pace o giustizia o qualsiasi altra urgenza del mondo, perde il tempo. Troppo perde il tempo chi non ama quel Fatto ma il mondo. Perciò, chi vuol seguire Cristo viene sommerso, battezzato, rivestito di Lui, avendo rinunciato al mondo e al suo principe e creduto a Lui. Tutto questo chiede di riecheggiare costantemente nelle orecchie e nel cuore e nella mente: la catechesi. Ecco come cresciamo nella dottrina. Non basta fare bene il tuo lavoro, se vuoi essere discepolo di Cristo. Devi seguirlo dentro la comunione della Chiesa che da due millenni porta la croce del mondo. Così i sinodali tedeschi, i preti, i vescovi, il papa e i fedeli laici di ogni latitudine, s’accorgano che non abbiamo da costruire un’altra Chiesa, perchè chi l’ha fatto è fallito, dice Benedetto XVI.

Il problema degli ecclesiastici di rango, quando intervengono sui media, è di parlare come politici se non come ideologi, invece che come pastori e maestri. Come dovrebbero qualificarsi? Giudicando, definendo, distinguendo il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. In una parola, comunicando il pensiero di Gesù Cristo, dicendo la verità sull’uomo e sul mondo. Non è una verità, ma quella di Gesù Cristo, l’espressione dell’amore di Dio affinché l’uomo e il mondo si salvino. Invece stiamo assistendo al lento e progressivo divampare di un incendio, appiccato dai vescovi tedeschi che si sono ribellati alla Rivelazione, alla Parola di Dio conclamata nel post-Concilio al punto da sostituire quasi i Sacramenti, ma ora calpestata con l’avallo alla pseudo-benedizione dei gay-moni: pseudo ovvero falsa, in quanto un sacramentale, qual è la benedizione, non può discostarsi dal sacramento, in specie quello del matrimonio tra uomo e donna, per la contraddizione che non consente. Certo, si può comprendere il tentativo del card. Ruini di salvare il salvabile, chiedendo l’attuazione della prima parte della legge 194 circa la tutela della vita umana nel suo inizio, e la differenziazione delle unioni civili gay dal matrimonio, cosa già affermata in teoria dalla legge apposita. Ma, il benemerito Cardinale avrebbe dovuto premettere e aggiungere che il pensiero cattolico non può che essere negativo sulle due leggi, perché contrarie alla Rivelazione. Nell’economia dell’intervista, non vi ha badato, perchè, conoscendo il suo pensiero, sappiamo che ne è convinto. Si aggiunga però, che le interviste dell’alto clero, in primis del papa, contribuiscono a far scadere il Magistero della Chiesa al livello di un’opinione come tante, mentre esso possiede uno statuto veritativo, quindi oggettivo. Il giudizio cattolico deve essere fermo nell’affermare la verità e indulgente nelle applicazioni, guardando al principio omnia videre, multa tolerare, pauca corrigere.

Torniamo all’incendio che rischia di divampare in tutta la Chiesa, se la Sede Apostolica non interverrà a ristabilire il confine su “ciò che sempre, dovunque e da tutti deve essere creduto”. Se continuerà nell’ambiguità, accogliendo i gruppi Lgbt e non ammonendo che tali unioni sono contrarie alla Rivelazione, ci sarà la riedizione del comportamento di Leone X e della sua corte, che sottovalutò la protesta di Lutero, liquidandola come chiacchiere di frati. E l’incendio si propagò dappertutto nella Chiesa, perché non pochi preti e vescovi sono inclini ad assecondare le mode, a causa della precaria formazione ricevuta. E tornerà la dolorosa divisione come tra gli ortodossi e gli ariani.

Intanto, una parte cospicua del popolo italiano ha scelto nella direzione di Dio, patria e famiglia, nonostante la timidezza e la codardia dei pastori della Chiesa, che non smentiscono quei politici che si dichiarano cattolici è sostengono idee di uomo e di famiglia contrarie alla Rivelazione. Si apre una sfida culturale, una partita nuova sul terreno pre-politico, alla quale stiamo contribuendo, nel nostro piccolo.Bisogna operare in modo che i politici che hanno vinto, si confrontino con questo soggetto dalla chiara identità cattolica.

La sottovalutazione dell’identità, è costata la sconfitta alle elezioni del partito democratico, perché in esso, come i big del partito riconoscono, convivono varie anime, quindi grande confusione sotto il cielo. Infatti, fa specie sentir parlare Enrico Letta che, da cattolico, sostiene i cosiddetti “diritti civili” propri del partito radicale. Strano modo di essere cattolico ed amorale, col piede in due scarpe. Invece, semper idem, essere “sempre lo stesso”, è una massima decisiva per esistere; il contrario è il trasformismo e la liquefazione. Tutti siamo avvertiti.

Si avvicina una sciagura polimorfa se non una meritata catastrofe, se continueremo ad essere “in piena sintonia con l’Europa” come vuole il card. Zuppi. Non stanchiamoci perciò di pregare.

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Nicola Barile

University of California, Berkeley

La Chiesa e il papa: lettura aristotelico-tomista della situazione attuale



Premessa


Il problema essenziale del mondo occidentale è la perdita della realtà: nulla è ciò che è, una cosa diventa ciò che è solo quando la determiniamo. Per questa ragione, svolgerò il tema affidatomi seguendo una visione filosofica detta “del realismo metafisico”: una visione del mondo essenzialmente aristotelica che, combinata con la mentalità giuridica romana, ha prodotto la civiltà occidentale nel periodo precristiano. Il cristianesimo ha poi aggiunto la conoscenza del soprannaturale che deve guidare correttamente la percezione dei sensi.



Il problema “Francesco”

Non è una novità che papa Francesco, nel corso degli anni, abbia fatto una serie di affermazioni e gesti teologicamente problematici, come la comunione ai divorziati, per esempio e il capovolgimento del motu proprio sulla Messa in latino, ispirando un movimento detto dei “benevacantisti”, secondo il quale il problema posto dalle discutibili dichiarazioni e azioni di Francesco può essere sciolto solo se si scopre che Benedetto è ancora papa. Perché in quel caso, le affermazioni problematiche non sarebbero state fatte da un vero papa e, quindi, non ci sarebbe bisogno di spiegare come un papa abbia potuto commettere tali errori.

Ora, la soluzione del benevacantismo è semplicemente superflua. La Chiesa ha sempre riconosciuto che i papi possono sbagliare quando non parlano ex cathedra, e qualunque altra cosa si pensi delle controverse dichiarazioni e azioni di Francesco, tutte, se errate, rientrano nella categoria dei possibili errori che un papa può commettere. Francesco può aver detto e fatto cose teologicamente più dubbie rispetto ai più noti papi del passato (come, ad esempio, Giovanni XXII), ma sono affermazioni e azioni dubbie di base dello stesso genere. Il problema è gravissimo, ma, ancora una volta, rientra nei limiti di ciò che la Chiesa e i suoi fedeli teologi hanno sempre riconosciuto potesse accadere, compatibilmente con l’infallibilità delle condizioni chiaramente definite per l’insegnamento pontificio.

È molto importante che i cattolici imparino la loro fede e conoscano la loro tradizione in modo da poter valutare ragionevolmente il valore delle dichiarazioni e delle azioni del papa. Per fare questo, devono (tra le altre cose) capire cos’è l’autorità dell’insegnamento della Chiesa e cosa non lo è.

Chi ha l’autorità di insegnare? Da dove deriva l’autorità? Cosa si può giustamente insegnare? Quali sono i gradi di autorevolezza? Che tipo di assenso richiedono i diversi gradi da parte dei fedeli? E devo assecondare le problematiche affermazioni del papa o dei vescovi e dei teologi?


La dottrina cattolica sull’autorità di insegnamento del papa è abbastanza chiara, ma molte persone la fraintendono gravemente. Alcune persone pensano che l’insegnamento cattolico sia che un papa sia infallibile non solo quando fa dichiarazioni ex cathedra, ma in tutto ciò che fa e dice.

Alcuni pensano che un cattolico sia obbligato ad accettare l’insegnamento di un papa solo quando tale insegnamento è da lui proposto come infallibile. Altri pensano che un cattolico sia obbligato a concordare più o meno con ogni punto di vista o decisione di un papa in materia di teologia, filosofia, politica, ecc. anche quando non viene presentato come infallibile. Come sempre, la dottrina cattolica è equilibrata, una via di mezzo tra gli estremi – in questo caso, tra questi estremi minimalisti e massimalisti. Ma è anche ricca di sfumature, e per capirle dobbiamo fare alcune distinzioni che troppo spesso vengono ignorate.


Per prima cosa chiariamo cosa s’intende per infallibilità papale. Quello che il Concilio Vaticano I descrisse è l’esercizio da parte del papa di quello che viene chiamato il suo “magistero straordinario”, in contrapposizione al suo “magistero ordinario” o attività didattica quotidiana sotto forma di omelie, encicliche, ecc., individuando diverse condizioni per l’esercizio di questo straordinario Magistero. In primo luogo, il papa deve fare appello alla sua suprema autorità di insegnamento come successore di Pietro, invece di parlare semplicemente come un teologo privato, o fare osservazioni a braccio o cose simili. Un esercizio del Magistero straordinario dovrebbe comportare, pertanto, tipicamente una dichiarazione formale e solenne. In secondo luogo, deve affrontare qualche questione di dottrina riguardante la fede o la morale. Il Magistero straordinario non riguarda questioni puramente scientifiche (come quanti elementi ci siano nella tavola periodica), questioni politiche (come se un determinato atto legislativo proposto sia una buona idea, ecc.). Terzo, deve “definire” qualche dottrina nel senso di proporlo come insegnamento ufficiale vincolante per tutta la Chiesa. Il Magistero straordinario non riguarda un insegnamento che riguarda circostanze meramente locali o contingenti.

Ma c’è un’ulteriore, cruciale condizione su tali dichiarazioni ex cathedra. Il Concilio Vaticano I lo ha sottolineato in un passaggio:

Infatti lo Spirito Santo fu promesso ai successori di Pietro non perché, mediante la sua rivelazione, facessero conoscere qualche nuova dottrina, ma perché, mediante il suo aiuto, custodissero religiosamente ed esponessero fedelmente la rivelazione o deposito di fede trasmesso dagli apostoli.

Ora sappiamo che i papi fanno affermazioni diverse dagli atti di insegnamento formale su questioni di fede e morale, ad esempio durante le interviste sugli aeroplani, le cerimonie con non cattolici o i discorsi davanti all’ONU. Ma poiché questi non sono atti di insegnamento, non hanno autorità e non comandano obbedienza ai fedeli. Come mai? Perché solo quando insegna formalmente gode dell’assistenza dello Spirito Santo.

Naturalmente, se ciò che dice è già una dottrina cattolica stabile, allora i cattolici sono tenuti ad accettare la dottrina. Ma – e questo è importante – ciò non è richiesto per quanto detto in quegli atti di insegnamento extramagisteriale, ma in quanto ciò che è detto in quegli atti è già stato autorevolmente insegnato dalla Chiesa.

Inoltre, ogni volta che i papi offrono le loro opinioni su questioni diverse dalla fede e dalla morale, ad esempio su questioni scientifiche come quelle se la terra sia rotonda o se il comportamento umano sia la causa principale del cambiamento climatico, le loro affermazioni, anche se si trovano in documenti ecclesiastici ufficiali, non hanno autorità e non comandano obbedienza. Come mai? Perché anche se quello che dicono è vero, la Chiesa e quindi il papa non hanno autorità per insegnare su questioni scientifiche. Dio non ha promesso alla Chiesa protezione per risolvere i dilemmi del mondo naturale, ma solo per comprendere le sue comunicazioni divine per compiere la sua volontà, vivere vite sante e raggiungere il cielo.

Infine, se i papi affermano qualcosa di contrario alla rivelazione divina o alla legge morale, anche con l’intenzione di insegnarlo formalmente o affermarlo implicitamente come vero, l’affermazione non gode della guida dello Spirito Santo e, quindi, non possiede autorità sulla coscienza dei cattolici. Pertanto, i cattolici sono obbligati quando scoprono l’errore a rifiutare tale insegnamento.

Papa Benedetto XVI ha espresso il punto come segue:

Il Papa non è un monarca assoluto i cui pensieri e desideri sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia di obbedienza a Cristo e alla sua Parola. Non deve proclamare le proprie idee, ma vincolare costantemente sé stesso e la Chiesa all’obbedienza alla Parola di Dio, di fronte a ogni tentativo di adattarla o annacquarla, e ad ogni forma di opportunismo…


Sebbene l’esercizio del suo magistero ordinario da parte del papa non sia sempre infallibile, può esserlo in determinate circostanze. In particolare, è infallibile quando il papa riafferma ufficialmente qualcosa che già faceva parte dell’insegnamento infallibile della Chiesa sulla base della Scrittura e della Tradizione. Ad esempio, nell’Ordinatio Sacerdotalis (1994), Papa San Giovanni Paolo II ha riaffermato l’insegnamento tradizionale secondo cui la Chiesa non ha autorità di ordinare le donne al sacerdozio, e la Congregazione per la Dottrina della Fede ha poi confermato che questo insegnamento deve essere considerato come infallibile. Il motivo per cui è da considerarsi infallibile non è che il documento pontificio in questione costituisse un esercizio del Magistero straordinario, ma piuttosto per lo statuto dell’insegnamento, facente parte della dottrina costante e universale della Chiesa.

Proprio perché gli esercizi del Magistero ordinario del papa sono infallibili quando si limitano a riaffermare l’insegnamento costante e universale della Chiesa, essi non comportano né il capovolgimento dell’insegnamento passato né l’aggiunta di qualche novità.


L’infallibilità papale, quindi, non è un potere magico con cui un papa può trasformare qualsiasi cosa antica che desidera in una verità che tutti sono tenuti ad accettare. È un’estensione dell’infallibilità del corpo dottrinale preesistente che è suo compito salvaguardare, e quindi deve essere sempre esercitato in continuità con quel corpo dottrinale.


I papi sanno che il loro compito è preservare e applicare l’insegnamento cattolico, e quindi quando dicono qualcosa che non è solo una semplice reiterazione di una dottrina preesistente, in genere cercano di tirare fuori le implicazioni della dottrina esistente, di risolvere alcune ambiguità in essa, per applicare la dottrina a nuove circostanze, o cose simili. C’è, quindi, nella dottrina cattolica una presunzione a favore di quanto dice un papa anche nel suo ordinario magistero non infallibile, anche se si tratta di una presunzione che può essere superata. Quindi, la posizione predefinita per ogni cattolico deve essere quella di assenso a tale insegnamento non infallibile. O almeno questa è la posizione predefinita quando tale insegnamento riguardi questioni di principio nei confronti della fede e della morale – in opposizione all’applicazione del principio a circostanze concrete contingenti, dove i giudizi su tali circostanze sono per loro natura al di là della competenza speciale del Papa.


Cinque categorie di dichiarazioni magisteriali

Allora, quando un cattolico deve assentire a qualche dichiarazione papale non infallibile? Quando un cattolico potrebbe non essere d’accordo con una simile affermazione? Questo argomento è stato chiarito dall’allora cardinale Joseph Ratzinger durante il suo periodo come Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede. Forse il documento più importante a questo proposito è l’istruzione del 1990 Donum Veritatis: Sulla vocazione ecclesiale del teologo, sebbene vi siano anche altri testi rilevanti. Il cardinale Avery Dulles (1918-2008) ha suggerito che nella Donum veritatis si possono identificare quattro categorie generali di enunciati magisteriali. Tuttavia, come indicano altre affermazioni di Ratzinger, la quarta categoria di Dulles sembra raggruppare insieme affermazioni con due diversi gradi di autorità. Quando queste vengono distinte, è chiaro che ci sono in realtà cinque categorie generali di dichiarazioni magistrali. Ecco quali sono:

1. Affermazioni che propongono definitivamente verità divinamente rivelate, o dogmi in senso stretto. Esempi: i dogmi cristologici, la dottrina del peccato originale, la grave immoralità di uccidere direttamente e volontariamente un essere umano innocente, e così via. Come osserva Dulles, secondo l’insegnamento cattolico, affermazioni in questa categoria devono essere considerate da ogni cattolico con “fede divina e cattolica”. Nessun legittimo disaccordo è possibile.

2. Affermazioni che propongono definitivamente verità non rivelate, ma strettamente connesse con verità rivelate. Esempi: l’insegnamento sull’immoralità dell’eutanasia e l’insegnamento secondo il quale l’ordinazione sacerdotale è riservata solo agli uomini. Secondo Donum Veritatis, le affermazioni in questa categoria devono essere “fermamente accettate e sostenute” da tutti i cattolici. Anche qui, non è possibile un legittimo disaccordo.

3. Dichiarazioni che in modo non definitivo ma obbligatorio chiariscono verità rivelate. Dulles suggerisce che «l’insegnamento del Vaticano II, che si asteneva da nuove definizioni dottrinali, rientra prevalentemente in questa categoria». Secondo Donum Veritatis, le affermazioni contenute in questa categoria devono essere accettate dai cattolici con la “sottomissione religiosa di volontà e d’intelletto”. Dato il loro carattere non definitivo, tuttavia, l’assenso dovuto a tali affermazioni non è assoluto come quello dovuto alle affermazioni contenuto nelle categorie 1 e 2.

4. Dichiarazioni di tipo prudenziale che richiedono obbedienza esterna ma non assenso interiore. Dulles suggerisce che la cautela della Chiesa nell’accettare l’eliocentrismo nel XVII secolo sarebbe un esempio. Questo tipo di affermazioni sono “prudenziali” nella misura in cui sono tentativi di applicare prudentemente i principi generali della fede e della morale a circostanze concrete contingenti, come lo stato delle conoscenze scientifiche in un particolare momento della storia. E non vi è alcuna garanzia che gli ecclesiastici, inclusi i papi, esprimano giudizi corretti su queste circostanze o sul modo migliore per applicarvi i principi generali. Qui è richiesta l’obbedienza esterna alle decisioni della Chiesa, ma non necessariamente l’assenso. Un “silenzio riverente” potrebbe essere il massimo che si può richiedere.

Gli esempi di giudizi “prudenziali” cui fa riferimento la Donum Veritatis e che Dulles discute nei suoi commenti a quel documento sono tutti giudizi molto strettamente connessi a questioni di principio nei confronti della fede e della morale, anche se le affermazioni sono di minore entità autorità rispetto alle dichiarazioni delle categorie 1-3.

Le dichiarazioni di papi e altri ecclesiastici che mancano di tali importanti implicazioni dottrinali, ma riguardano invece questioni di politica, economia e simili, sono spesso chiamate anche “giudizi prudenziali”, perché anch’esse implicano il tentativo di applicare prudentemente principi di fede e di morale a circostanze concrete contingenti. Donum Veritatis non affronta questo tipo di giudizio e nemmeno Dulles nella sua discussione sul documento, ma è chiaro da altre affermazioni del cardinale Ratzinger che esso costituisce una quinta categoria di magistero:

5. Dichiarazioni di tipo prudenziale su questioni su cui può esistere una legittima diversità di opinione tra i cattolici. Esempi sarebbero molte delle dichiarazioni fatte da papi e altri ecclesiastici su questioni di controversia politica, come la guerra e la pena capitale. Il cardinale Ratzinger ha fornito questi come esempi specifici in un >i>memorandum del 2004 sul tema La dignità di ricevere la santa comunione: principi generali, in cui affermava:

Non tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell’aborto e dell’eutanasia. Ad esempio, se un cattolico fosse in contrasto con il Santo Padre sull’applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare la guerra, non sarebbe per questo considerato indegno di presentarsi a ricevere la Santa Comunione. Sebbene la Chiesa esorti le autorità civili a cercare la pace, non la guerra, e ad esercitare discrezione e misericordia nell’imporre punizioni ai criminali, può ancora essere consentito impugnare le armi per respingere un aggressore o ricorrere alla pena capitale. Può esserci una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicazione della pena di morte, ma non per quanto riguarda l’aborto e l’eutanasia.


Si noti che il cardinale Ratzinger si spinge a dire che un cattolico potrebbe essere “in disaccordo con” il papa sull’applicazione della pena capitale e sulla decisione di fare la guerra ed essere comunque degno di ricevere la comunione – cosa che non avrebbe potuto dire se fosse peccato mortale essere in disaccordo con il papa su tali questioni. Ne consegue che non vi è alcun grave dovere di assenso alle dichiarazioni del papa su tali questioni. Il cardinale afferma inoltre che “potrebbe esserci una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull’applicazione della pena di morte”, nonostante il fatto che papa Giovanni Paolo II, sotto il quale il cardinale all’epoca prestava servizio, abbia espresso dichiarazioni molto forti contro la pena capitale e la guerra in Iraq. Ne consegue che le dichiarazioni del papa su tali questioni non erano vincolanti per i cattolici nemmeno a pena di peccato veniale. Nel memorandum, il cardinale Ratzinger afferma anche esplicitamente che gli elettori e i politici cattolici devono opporsi alle leggi che consentono l’aborto e l’eutanasia, nonché astenersi dalla Santa Comunione se collaborano formalmente a questi mali. Al contrario, non richiede requisiti sul comportamento (come votare) dei cattolici che non sono d’accordo con il papa sulla pena capitale o sulla decisione di fare la guerra. Quindi, le dichiarazioni papali su tali argomenti, a differenza delle dichiarazioni di categoria 4, evidentemente non richiedono alcun tipo di obbedienza esterna e tanto meno il consenso. I cattolici devono quindi a tali affermazioni una seria e rispettosa considerazione, ma niente di più.

Il motivo per cui questo è degno di nota, e il motivo per cui vale anche la pena sottolineare il significato del memorandum del cardinale Ratzinger, è che alcuni scrittori cattolici hanno la tendenza ad accusare altri cattolici che non sono d’accordo con le dichiarazioni del papa su questioni di controversia politica di essere “dissidenti”. Ad esempio, a volte viene affermato che qualsiasi cattolico che sia costantemente “pro-vita”, non solo sarà d’accordo con le dichiarazioni papali che condannano l’aborto e l’eutanasia, ma sarà anche d’accordo con le dichiarazioni papali che criticano la pena capitale o la guerra in Iraq, o avallando alcune dichiarazioni economiche politiche. Il suggerimento è che i cattolici che rifiutano l’insegnamento della Chiesa su aborto ed eutanasia sono “dissidenti di sinistra” e i cattolici che non sono d’accordo con le recenti dichiarazioni papali sulla pena capitale, la guerra in Iraq o specifiche politiche economiche sono “dissidenti di destra”, come se entrambe le parti fossero impegnate nella disobbedienza alla Chiesa.


Nella migliore delle ipotesi questo riflette una grave ignoranza teologica. Nel peggiore dei casi è intellettualmente disonesto e demagogico. Un cattolico che non è d’accordo con l’insegnamento della Chiesa sull’aborto o l’eutanasia sta rifiutando una dichiarazione del magistero di categoria 1 o di categoria 2 – qualcosa che non è mai consentito. Ma un cattolico che non è d’accordo con ciò che hanno detto i papi recenti sulla pena capitale, sulla guerra o su specifiche politiche economiche è in disaccordo con le affermazioni di categoria 5, cosa che la Chiesa stessa ritiene ammissibile.



Errori papali

Poiché la Chiesa consente che i cattolici in determinate circostanze possano essere legittimamente in disaccordo con le affermazioni della categoria 3, per non parlare delle affermazioni delle categorie 4 e 5, l’insegnamento cattolico implica quindi che è possibile che i papi si sbaglino quando fanno affermazioni che rientrano in una di queste categorie. È anche possibile che un papa si sbagli in modo più radicale se, fuori dal contesto del suo magistero straordinario, dice qualcosa di incoerente con un’affermazione di categoria 1 o di categoria 2. Ed è possibile che un papa cada in errore in altri modi, come attuando politiche poco sagge o esibendo immoralità nella sua vita personale. Infatti, oltre a vincolare la Chiesa all’eresia, è possibile che un papa arrechi grave danno alla Chiesa. Come ha detto una volta il cardinale Ratzinger, quando gli fu chiesto se lo Spirito Santo abbia un ruolo nell’elezione dei papi:

Non lo direi nel senso che lo Spirito Santo sceglie il Papa, perché ci sono troppi esempi contrari di papi che lo Spirito Santo ovviamente non avrebbe scelto. Direi che lo Spirito non prende esattamente il controllo della faccenda, ma piuttosto come un buon educatore, per così dire, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza abbandonarci del tutto. Quindi il ruolo dello Spirito va inteso in un senso molto più elastico, non che sia lui a dettare il candidato per il quale si deve votare. Probabilmente l’unica assicurazione che offre è che la cosa non può essere completamente rovinata.

Si potrebbero fare esempi di errori papali, ma non basterebbero a mostrare quanto gravemente possano sbagliare i papi quando non esercitano il loro magistero straordinario. E se i papi possono sbagliare gravemente anche su questioni che riguardano la dottrina e il governo della Chiesa, va da sé che possono sbagliare gravemente rispetto a questioni di politica, scienza, economia e simili.


Che i papi siano fallibili nel modo in cui sono è importante da tenere a mente per i cattolici quanto il fatto che i papi sono infallibili quando parlano ex cathedra. Molti cattolici ben intenzionati hanno dimenticato questa verità, o sembrano volerla sopprimere. Quando i papi recenti hanno detto o fatto cose strane o anche manifestamente poco sagge, questi apologeti si rifiutano di ammetterlo. Si soffocano con ragionamenti con cui cercano di mostrare che l’affermazione o l’azione discutibile è perfettamente innocente, o addirittura trasmette una profonda intuizione, se solo fossimo disposti a vederla. Se bloggers cattolici e apologeti pop fossero vissuti in epoche precedenti, alcuni di loro avrebbero senza dubbio assicurato ai loro lettori che papa Stefano VI (896-897) stava cercando di insegnarci una profonda verità spirituale convocando il cosiddetto sinodo del cadavere (in cui il suo predecessore Formoso fu riesumato e processato) se solo avessimo saputo ascoltarlo; o che Giovanni XXII (1316-1334), insegnando la visione eterodossa secondo cui le anime dei beati non vedono Dio subito dopo la morte, ma solo alla risurrezione, stava davvero approfondendo la nostra comprensione della dottrina piuttosto che confondere i fedeli.


Conclusione:

Il benevacantismo non offre alcuna soluzione ai problemi posti dalle parole e dalle azioni controverse di papa Francesco, e anzi rischia di peggiora le cose. E per di più conduce i cattolici nel grave peccato dello scisma.

Ora Benedetto ha ripetutamente affermato che ha rassegnato pubblicamente e liberamente le dimissioni dal suo incarico, in risposta a coloro che ipotizzano il contrario. Ha scritto, ad esempio, in una lettera ad A. Tornielli:

Non c’è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino. Unica condizione della validità è la piena libertà della decisione. Speculazioni circa la invalidità della rinuncia sono semplicemente assurde. (La Stampa, 27 febbraio 2014).

E in un’intervista a Massimo Franco:

È stata una decisione difficile. Ma l’ho presa in piena coscienza. (…) Alcuni miei amici un po’ fanatici sono ancora arrabbiati, non hanno voluto accettare la mia scelta. Penso alle teorie cospirative che l’hanno seguita (Il Corriere della sera, 1° marzo 2021).

Le sue dimissioni soddisfano dunque chiaramente i criteri di validità stabiliti dal diritto canonico:

Nel caso che il romano pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede che qualcuno la accetti (CIC, c. 332, § 2)

Alcuni hanno suggerito che le dimissioni non possano essere state date liberamente. Ma questo è un non sequitur, poiché ogni cattolico che ha familiarità con le condizioni della gravità di un peccato dovrebbe sapere che occorrono materia grave, piena conoscenza e consenso deliberato. Con ciò non voglio dire che le dimissioni di Benedetto siano peccaminose, ma piuttosto che queste condizioni fanno capire che la Chiesa distingue l’agire con piena consapevolezza (“la conoscenza del carattere peccaminoso dell’atto, della sua opposizione alla Legge di Dio”) e l’agire con deliberato consenso o liberamente (“un consenso sufficientemente libero perché sia una scelta personale. L’ignoranza simulata e la durezza del cuore non diminuiscono il carattere volontario del peccato ma, anzi, lo accrescono”: CCC, §§ 1857-9). E il diritto canonico pone solo quest’ultima, e non la prima, condizione per la validità delle dimissioni pontificie. Quindi, anche se le dimissioni di Benedetto fossero state fatte sotto un’influenza esterna [di un’errata teoria teologica sul papato], ciò sarebbe irrilevante per il suo essere stato fatto liberamente e quindi validamente.

La verità è che Cristo a volte lascia che il suo Vicario erri, solo entro determinati limiti, ma a volte gravemente. Come mai? In parte perché i papi, come tutti noi, hanno il libero arbitrio. Ma in parte, proprio per dimostrare che (come ha detto il cardinale Ratzinger) “la cosa non può essere totalmente rovinata” – nemmeno da un papa. Nel suo giudizio sul Grande Scisma d’Occidente (quando cioè i cardinali tentarono di sostituire Urbano VI (1378-89) con un altro papa, Clemente VII (1378-1394), dando inizio appunto al Grande Scisma d’Occidente, durato quarant’anni, in cui prima questi due uomini, e poi un terzo uomo, reclamarono tutti il soglio pontificio. I teologi, e anche i santi, erano divisi sulla controversia. Santa Caterina da Siena fu tra i santi che sostenevano Urbano, mentre San Vincenzo Ferrer tra quelli che sostenevano invece Clemente), lo storico protestante Ferdinand Gregorovius (1821-1891), che nessuno può sospettare di esagerare nel rispetto per il papato, scrive: “Un regno temporale vi avrebbe ceduto; ma l’organizzazione del regno spirituale era così meravigliosa, l’ideale del papato così indistruttibile, che questo, il più grave degli scismi, servì solo a dimostrarne l’indivisibilità”…

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