Il Pensiero Cattolico

9 Novembre 2024

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Guido Vignelli

La scelta di ritornare nelle catacombe: ritirata strategica o resa al nemico?

Recentemente alcuni autori hanno pubblicato articoli e libri, diffusi soprattutto in ambiente cattolico conservatore e tradizionalista, che propongono una soluzione capace di favorire la sopravvivenza della Fede cristiana in una società che sta passando dalla indifferenza alla persecuzione della Chiesa.

Questa strategia prevede che la comunità ecclesiale attui una strategia di emergenza compiendo una nuova “scelta religiosa”, dopo quella fatta dall’Azione Cattolica Italiana negli anni 1960-1970.

La vecchia “scelta religiosa” spinse il laicato cattolico ufficiale a rinunciare a una specifica azione politica cristiana, al fine di contribuire alla costruzione di una “cristianità profana”, o meglio di una laicista “città dell’Uomo”. Quella scelta causò la sudditanza dei cattolici al progetto “progressista”, la loro irrilevanza politica e la consegna della società civile alle forze rivoluzionarie, come avevano vanamente ammonito intellettuali inascoltati del calibro di Del Noce e Baget-Bozzo.

Oggi, i fautori della nuova “scelta religiosa”, pur ammettendo il fallimento di quella vecchia, credono che sia ormai irrealizzabile l’incompiuto progetto – sempre raccomandato dalla Chiesa al laicato militante – di riconquistare la società alla Fede e di restaurare una Cristianità. Pertanto, essi esortano i fedeli a rassegnarsi all’apostasia della secolarizzata società moderna, considerata ormai come persa e irrecuperabile, a rinunciare a riconquistarla a Cristo e a ritirarsi dal “pubblico” al “privato”.

Essi propongono che la Chiesa non si ostini più a evangelizzare, o anche solo a risanare, la vita sociale, giuridica e politica delle nazioni, ma anzi eviti prudentemente di compromettersi in questo campo pericoloso rischiando di suscitare ripulse e persecuzioni. Bisogna semmai che la Chiesa si limiti a chiedere al potere laicista di tollerare benevolmente la sopravvivenza della presenza “religiosa” (ossia solo spirituale) cristiana nella sua qualità di umile contributo dato per facilitare il progresso dell’umanità e la tutela della natura.

Un preteso “ritorno alle origini”

In concreto, questa nuova “scelta religiosa” prevede realizzare una sorta di “ritorno alle origini della Chiesa”. Infatti, si pretende che ormai la Chiesa possa sopravvivere al dominio laicista solo ritornando al (supposto) modo di vita dei primi cristiani, rinunciando a “propaganda” e “proselitismo” (ossia all’apostolato e alla conversione) e limitandosi a un’attività di testimonianza spirituale da tentare solo nel campo personale e familiare, o al massimo locale.

Poco dopo la chiusura dell’ultimo Concilio Ecumenico, questa strategia di rinuncia e di ritirata fu proposta da alcuni teologi progressisti moderati, spaventati dalla reazione anticristiana del Sessantotto e preoccupati dalla crescente crisi religiosa. Ad esempio, alcuni aspirarono che la Chiesa, rinunciando a privilegi e poteri, si riduca a una “piccola comunità interiorizzata e semplificata”, al fine di “ricominciare tutto daccapo” (J. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 1971, cap. V). Altri elaborarono addirittura una esplicita “teologia del fallimento”, sostenendo che il fallimento storico della Chiesa ne prova la nobile estraneità al mondo.

Analoga soluzione viene oggi proposta al mondo cattolico dai fautori della nuova “svolta religiosa”. Essi esortano a disertare dalla fallimentare guerra in difesa della civiltà cristiana e di ripiegare in una “rivoluzione spirituale” che permetta ai cristiani di diventare “testimoni silenziosi e agenti segreti di Dio” e alla Chiesa di “sopravvivere nel privato” (Chantal Del Sol, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo, Cantagalli, Siena 2022, cap. V). Altri invitano i cristiani a “rifugiarsi in catacombe esistenziali” che permettano di “aprire condizioni di nicchia in terra ostile” (Boni Castellane, In terra ostile, La Verità, Milano 2023, pp. 90 e 125).

Inevitabili e insuperabili obiezioni

Tuttavia, questo programma di rinuncia, ritirata e nascondimento ecclesiale solleva inevitabilmente obiezioni insuperabili, sia storiche che pastorali che dottrinali.

Dal punto di vista storico, la prospettiva “catacombalista” si rifà a una “comunità cristiana primitiva” che sembra tratta da certi romanzi, film e telefilm sentimentali del secolo scorso. Infatti, il rifugiarsi nelle catacombe fu solo un ripiego talvolta imposto da situazioni drammatiche, ma non fu mai concepito come vita ordinaria, tantomeno come modello ecclesiale da imitare.

Oltretutto, l’attuale situazione della Chiesa non è paragonabile a quella di allora, se non altro perché Essa rimane erede e custode sia di un resistente prestigio culturale, sia di un cospicuo tesoro dottrinale, liturgico, giuridico, sociale e perfino materiale, che non è possibile nascondere e non è lecito liquidare fallimentarmente, tantomeno abbandonare al nemico.

Dal punto di vista pastorale, la scelta “catacombalista” abbandonerà la comunità ecclesiale al crescente potere del nemico e annienterà quei movimenti che tutt’oggi perseverano eroicamente nel difendere ciò che resta della civiltà cristiana attaccata dalla Rivoluzione. Sia l’insegnamento che l’impegno politico-sociale verranno prima ostacolati e poi esclusi, nel timore di suscitare le reazioni dei nemici della Chiesa, perdere la (falsa) pace religiosa e peggiorare le meschine condizioni di sopravvivenza.

Pertanto, questo “ritorno alle catacombe” non sarà una ritirata strategica, tentata nella speranza di raccogliere le forze rimaste per poi scagliarle contro gli avversari. Al contrario, essa diventerà una resa al nemico, nella illusione di far sopravvivere una Chiesa intimorita e silenziosa destinata a diventare complice di quelle forze tenebrose alle quali non vuole opporsi. Ciò favorirà la lenta e indolore estinzione di quella testimonianza cristiana che si vorrebbe salvare.

Dal punto di vista dottrinale, infine, col pretesto di “tornare all’essenziale” per salvarlo dalla crisi, la scelta “catacombalista” elude i diritti di Dio come Creatore e Legislatore della società, quelli di Cristo come Re dei popoli e quelli della Chiesa come Mater, Magistra et Domina gentium, in particolare il suo insegnamento sociale. Per giunta, questa scelta presuppone una concezione di Dio che tende al deismo, riducendolo a un Essere supremo che non governa il mondo, o almeno che è non è capace d’intervenire risolutamente nella storia contemporanea, per cui Egli abbandona la sua Chiesa al destino di essere vinta e sottomessa al Nemico.

Tutto ciò ci conferma una regola: ogni proposta che pretende di giustificare la viltà dei cristiani nel loro arrendersi alla Rivoluzione implica una offesa fatta alla divina Provvidenza e un tradimento della consegna affidata dal divin Redentore alla sua Chiesa: ossia quella d’“insegnare la verità a tutti i popoli”, “porre la fiaccola sopra il moggio” e “predicare il Vangelo sui tetti”, al fine d’“innalzarsi come vessillo tra le nazioni”.

A questo tradimento bisogna opporre il coraggio e la tenacia di restare fedeli non solo all’astratta dottrina cattolica ma anche al fattivo impegno dell’azione cristiana di riconquista della società.

Ad majorem Dei gloriam (etiam socialem).

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Don Nicola Bux:

"IL FUTURO È NOSTRO"

7° incontro Paix Liturgique: DALLA MEDIATOR DEI AL SUMMORUM PONTIFICUM:
i rimedi al crollo della liturgia, concepita come se Dio in essa non c’è.

Son passati 75 anni dalla Mediator Dei, pubblicata il 20 novembre 1947, dal Venerabile Pio XII: il documento dottrinale più importante sulla liturgia prima del concilio Vaticano II, senza del quale la Costituzione sulla sacra liturgia, emanata solo sedici anni dopo, il 4 dicembre 1963, non si comprende appieno. Ne è la fonte principale, quanto ad impostazione classica e a contenuti dottrinali, e un termine di paragone con le istanze antiche e nuove della liturgia[…].

La riforma liturgica, secondo Pio XII, risulta dunque dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli abusi non possono metterla in dubbio
; perciò egli rammenta che “per tutelare la santità del culto contro gli abusi” esiste la Congregazione dei Riti. La liturgia è manifestazione della Chiesa corpo e Capo, organismo che produce energie sempre nuove pur conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla Costituzione liturgica (cfr n 21)[…].

Va tenuto presente quanto il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha affermato in proposito: “Lungi dal riguardare solamente la questione giuridica dello statuto dell’antico Messale Romano, il Motu proprio pone la questione dell’essenza stessa della liturgia e del suo posto nella Chiesa. Ciò che è in causa è il posto di Dio, il primato di Dio. Come sottolinea il “papa della liturgia”(ndr Benedetto XVI): “Il vero rinnovamento della liturgia è la condizione fondamentale per il rinnovamento della Chiesa”[…]

Ecco la vera e profonda ragione sottesa al Summorum Pontificum: rispondere in maniera più adatta ed efficace all’esigenza spirituale e pastorale di quanti, pur tributando il giusto ossequio e la giusta obbedienza a quanto stabilito dal Concilio Ecumenico Vaticano II, scossi e perplessi a causa delle “deformazioni” liturgiche che si verificarono nell’immediato post-Concilio – ed a cui ancora oggi siamo costretti in molti casi ad assistere – trovavano e trovano nella forma liturgica precedente il modo più adeguato e fruttuoso per coltivare il loro rapporto con Dio[…].

Mediator Dei e Summorum Pontificum costituiscono il rimedio ad una concezione della liturgia privata della Presenza Divina, perché dinanzi all’archeologismo, alle deformazioni e agli abusi, riaffermano il diritto liturgico, quale tutela dei diritti di Dio nel culto[…].

Lo studio e il dibattito sul primato dello ius divinum mi sembra essenziale per favorire la riforma della liturgia secondo la Costituzione conciliare compresa nel contesto della tradizione cattolica e porre fine al relativismo liturgico[…].

Si deve constatare che nella liturgia nuova, non di rado sembra come se in essa Dio non c’è: è venuta meno la riverenza e il sacro, in una parola l’adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina.
Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l’uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui – lo Spirito – che lo deriva”. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio[…]

Di qui deve cominciare la riforma della riforma
: “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Joseph Ratzinger scriveva: «Questa, credo, è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Il secondo passo consisterà nel valutare dove sono stati apportati tagli troppo drastici, per ripristinare in modo chiaro e organico le connessioni con la storia passata. Io stesso ho parlato in questo senso di “riforma della riforma”. Ma, a mio avviso, tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali».[…]

Nella comprensione del concilio Vaticano II e della riforma liturgica, è dunque fallita “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”
, che egli argomentò con spirito critico ma costruttivo, con i discorsi alla Curia Romana (22 dicembre 2005) e ai sacerdoti romani nel febbraio 2013? No, a mio modesto avviso, se non porremo ostacoli ai rimedi fin qui accennati, che stanno emergendo dal basso e dall’Alto: assecondiamoli con devozione e carità! San Carlo Borromeo, grande riformatore, era convinto che la Chiesa ha al suo interno le energie per rigenerarsi.

Se taluni che la criticano, ritengono che la Chiesa troverà proprio da questa profonda crisi di fede uno sprone per rinnovarsi e purificarsi, allora non sostengano “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, con la delegittimazione del concilio e del Novus Ordo, abbandonino posizioni pregiudiziali e oltranziste, quel radicalismo deleterio che finisce per dare ragione a quanti contrappongono due ecclesiologie, mettendo così in difficoltà tanti vescovi, sacerdoti e fedeli che, dopo gli ultimi documenti pontifici, non hanno cambiato il loro atteggiamento. Uno degli effetti, se non il più pernicioso, della negazione dell’ermeneutica della continuità e che certe posizioni estreme, radicali, finiscano poi per darsi idealmente la mano. Persistiamo invece con realismo, nel pensiero cattolico. E’ in movimento una nuova generazione: è un fiume sotterraneo che, con la pazienza dell’amore (cfr 1 Cor 13) sta riaffiorando, e vincerà.

il testo completo: N.Bux – Dalla Mediator Dei 16 settembre 2022

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Ettore Gotti Tedeschi:

Si rifletta su alcuni rischi che corriamo in questo XXI secolo

Saper percepire cosa  potrà  succedere nella nostra santa Chiesa  credo sia prerogativa dei  Santi. Ma i rischi  che si corrono ( certamente discutibili…) son percepibili anche da osservatori  sensibili.


1°punto -Un rischio per un cattolico in questo XXI secolo è di sentirsi …“ poco coraggioso” e anziché impegnarsi a “fecondare “il mondo anche, o meglio, proprio oggi, in queste condizioni, secondo le aspettative di Gesù Cristo, accetti a scatola chiusa la profezia di prevedere di ridursi a “piccolo gregge” (molto molto creativo però …)

2°punto- Certo non è facile vivere la propria fede esemplarmente in modo di contagiare e fare apostolato, quando ci si sente obiettare che ciò che si propone, per evangelizzare, non è “esattamente” quello che dicono e scrivono i massimi responsabili della Chiesa ( la Gerarchia), facendo perdere credibilità apostolica e crescendo persino i dubbi a chi pretende di aver capito meglio dei Capi ( la Gerarchia) ciò che voleva il Fondatore della Chiesa. Ma chi avrà ragione ?

3°punto- Altro rischio conseguente sta nei contrasti comportamentali, tra cattolici più ortodossi ( più rigidi ? ) e più progressisti ( più permissivi ? ) verso il concetto di peccato. Ciò grazie al divario tra ideali spirituali e reali ( ci son tentazioni cui non si può resistere ?). In economia c’è una legge , la Legge di Gresham , che dice che la moneta cattiva scaccia quella buona. Vuoi vedere che la legge di Gresham si può applicare anche in materia religiosa sospettando che la morale cattiva scacci quella buona? Risultato potrebbe essere eccessiva relativizzazione della morale.

Conclusione: prospettive poco ottimistiche, contrasti nella evangelizzazione, relativizzazione della morale. Si deve riflettere come avrebbe fatto S.Tommaso ( se ci ricordiamo ancora chi è e cosa ha scritto).

Cartesio, dopo quattro secoli, sarebbe soddisfatto (certo non solo lui …), di come si sta finalmente riorganizzando la dottrina cattolica spirituale, in dottrina pratica di etica sociale. Il pontefice del Positivismo, Augusto Comte , dopo poco meno di due secoli, sarebbe altrettanto, o più, soddisfatto di aver ben profetizzato chi sarebbero stati i grandi riformatori di detta dottrina .

Ogni cultura ha vissuto negli ultimi cinque secoli il processo di laicizzazione del sacro , ma in modo diverso , sapendo conservarlo, ridurlo o perderlo. Dopo l’illuminismo in Francia si assistette ad un rapido processo di “decristianizzazione”. Nel Regno Unito, invece, di secolarizzazione della cultura. In Italia, dove la Chiesa cattolica apostolica romana è nata, vissuta e espansa nel mondo tutto, in più fasi e tempi, si è assistito ad un processo molto diverso, più lento e progressivo, poi accelerato, di destrutturazione . Questo processo si è realizzata in modo assolutamente originale e specifico, che solo poteva esser concepito per la Chiesa di Cristo, essendo la Chiesa l’unica autorità morale al mondo strutturata secondo un modello di gestione assoluto e accentrato in una sola persona. Vorrei sottolineare questo punto: solo il Papa può essere infallibile ( in materia di fede e morale ) , è un Dogma ( Concilio Vaticano I -18luglio 1870) .

Conseguenza ?

L’effetto specifico oggi, nel mondo cattolico, sembra essere di “confusionalizzazione” su cosa sta accadendo e perché , con conseguente confusione sulla obbedienza, a chi e su cosa. I cattolici sembrerebbero oggi trovarsi su una linea di confine ( borderline ), cercando di capire se e come adeguarsi al nuovo ordine dottrinale percependo la fine del vecchio ordine . In molti son convinti che la civiltà cristiana sia morta e sepolta e si debba pertanto spegnere la luce, altri son già disposti e pronti alla riconversione a funzionari di una onlus che si occupa di sociale, altri ancora stanno pensando al ritorno nelle catacombe. Ma il pensare di doversi rassegnare a ridursi a “piccolo gregge”, più o meno creativo, e pertanto rifiutarsi di pensare che Dio si sia incarnato, sia stato crocefisso e risorto, e 2000 anni dopo debba congratularsi per questa scelta coraggiosa di diventare piccolo gregge creativo, dovrebbe pretendere una riflessione attenta ( appunto tomistica). Non solo perché questo piccolo gregge non inciderebbe in quasi nulla e in nessun posto e per chissà quanti secoli, ma considerando anche che questo piccolo gregge, in questi tempi transumanisti, potrebbe anche esser identificato come una “setta” pericolosa da tener sotto osservazione , se non peggio….

Il Grande Joseph Ratzinger lo spiegò profetizzandolo, è vero, ma nel lontano 1969, a fine Vaticano II, quando non era ancora Arcivescovo. Forse aveva ragione e le ragioni che adduceva sulla crisi in atto sono condivisibili, certo potrà risorgere una chiesa della fede, ma nel frattempo ? Alla umanità chi racconterà la buona novella ? E qui vorrei proporre una riflessione.

Anche la Chiesa, alla fine, è un mezzo, sacro perché voluto da GesùCristo, sacro perché è il mezzo di Redenzione, ma non è la Chiesa il Fine . Ma se la Chiesa è un mezzo, anziché cambiarlo, o attendere che cambi, non è più logico riferire la proprie attenzioni a chi lo utilizza e potrà utilizzarlo? Questa riflessione vale per ogni considerazione su mezzi, fini e utilizzo dei mezzi per raggiungere un fine. Ma qui stiamo parlando di un fine ultimo :la salvezza.

Negli ultimi tempi gli errori fatti all’interno della Chiesa non son stati pochi. Il rifiuto della scolastica e del tomismo probabilmente è stato uno dei più importanti. Se non si capisce cosa conta e non si difende ciò cui si crede si è destinati a perderlo e pertanto vivere di riserve spirituali accumulate in precedenza e poi di scuse e giustificazioni. Senza le sue fondamenta continuamente rinforzate la civiltà decade, si corrompe inevitabilmente, perde la visione d’insieme naturale e soprannaturale, immanente e trascendente, perde la certezza del valore del libero arbitrio accettando un determinismo scientista, perde il valore delle opere legate alla fede e permette a utopie di affermarsi, nella dichiarata capacità di valorizzare e persino salvare l’uomo. Perdendo anche la speranza e confondendo pertanto la certezza di “che fare “.

Per decidere ciò che è opportuno fare, si rifletta secondo san Tommaso – Aristotelico.

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Tommaso Amadei

Don Nicola Bux : “ Traditionis custodes e il cuore affranto di Benedetto XVI"

È stato pubblicato, qualche giorno fa, il video dell’intervista fatta da Guido Horst (caporedattore del settimanale cattolico tedesco Die Tagespost) a mons. Gänswein, segretario privato di Ratzinger da prima che fosse eletto al Soglio petrino.


Lo scambio, che ripercorre i gangli fondamentali della vita, dell’opera e del pensiero del teologo e Papa bavarese alla luce dell’esperienza di mons. Gänswein, è capace di illustrare le preoccupazioni e le angosce che hanno abitato il cuore e la mente del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede prima e del Sommo Pontefice poi: la decadenza della fede e della società occidentale, il rapporto tra fede e ragione, le proteiformi problematiche specifiche delle chiese locali e via dicendo.

Un punto particolarmente rilevante dell’intervista, che sta già facendo ampiamente discutere diverse anime all’interno della Santa Chiesa e che è destinato a rimanere fulcro di dibattito anche nel tempo a venire, è quello in cui l’ormai ex segretario privato di Benedetto XVI afferma che il motu proprio di Papa Francesco Traditionis Custodes, che impone diverse limitazioni alla celebrazione della santa Messa more antiquo, sia stato recepito negativamente dal Papa emerito. In particolare, mons. Gänswein ha dichiarato:

«[il motu proprio Traditionis Custodes] è stato un punto di svolta. Io credo che leggere il nuovo motu proprio abbia addolorato il cuore di Papa Benedetto, perché la sua intenzione è stata quella di aiutare coloro che semplicemente hanno trovato una casa nella Messa antica per trovare pace interiore, trovare pace liturgica, col fine di portarli lontano da Lefebvre»

Il prelato ha continuato, dicendo: «E se pensate per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita spirituale e nutrimento per tante persone, compresi molti santi, è impossibile immaginare che essa non abbia più nulla da offrire. E non dimentichiamo che molti giovani – nati ben dopo il Vaticano II e che non comprendono davvero tutto il dramma che ha circondato il Concilio – che questi giovani, che conoscevano la Messa nuova, hanno nondimeno trovato una casa spirituale, un tesoro spirituale anche nella Messa antica».

Mons. Gänswein ha concluso dicendo «Togliere questo tesoro alle persone… Bene, non posso dire di essere a mio agio con ciò».

Per quanto la dichiarazione sulla reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes sia un’interpretazione personale del fatto (formulata iniziando con “io credo”), è chiara a tutti la sua attendibilità, a meno di voler mettere in dubbio la parola di chi ha potuto conoscere il pensiero e l’approccio di Benedetto XVI meglio di chiunque altro. Senza contare che il motu proprio Summorum Pontificum, che tolse tanti vincoli per la celebrazione della santa Messa in vetus Ordo, vede la paternità dello stesso Papa Ratzinger (il che pare scontato, ma forse è bene ricordarlo).

Con don Nicola Bux, cerchiamo di fare il punto della situazione.


Don Nicola, cosa dice al cattolico d’oggi, dal punto di vista ecclesiale, questa pesante dichiarazione di mons. Gänswein a riguardo della reazione di Benedetto XVI al motu proprio Traditionis Custodes? Quale portata e quali possibili conseguenze può avere?

Non mi sorprende. Qualcuno si chiederà: perché non l’ha fatto prima. Forse per non accrescere la tensione o forse perché Benedetto non aveva più la forza di intervenire, come invece aveva fatto sul celibato, durante il sinodo dell’Amazzonia. La reazione però va meditata da parte di papa Francesco e dei fautori della rottura: a chi giova rompere la pace liturgica, come egli disse a Parigi? Per non dire dell’affermazione, priva di fondamento storico che una è la lex orandi della Chiesa. Se così fosse, si dovrebbero annullare le forme liturgiche orientali e occidentali. Chi non sa, che esiste diversità tra le chiese orientali fra loro e all’interno di ciascuna? La liturgia bizantina non ha tre forme: quella di S.Giovanni Crisostomo, quella di san Basilio e quella dei Presantificati? E la latina non può avere due forme: quella di Damaso-Gregorio Magno-Pio V e quella di Paolo VI? Mi auguro un ripensamento al Dicastero del Culto Divino e quindi nel papa. Ma, col tempo, siccome l’affermarsi della liturgia tradizionale è inarrestabile, si apriranno dei varchi. Bisogna pazientare, persistendo.


È certamente situazione inedita quella in cui, vivente un Papa dimissionario, il Papa regnante emana un documento che contraddice un atto del predecessore, e questo brano di intervista ci fa scorgere un retroscena impressionante di ciò. In particolare, la questione si impernia sul tema della liturgia. È cosa nota che, nel tempo, si è tentato in ogni modo di comporre o contrapporre i due pontificati di Papa Benedetto XVI e di Papa Francesco. Parlando specificamente della visione liturgica, come sarà possibile parlare di continuità, tenendo conto di Traditionis Custodes e delle dichiarazioni di mons. Gänswein?

Il magistero di un papa può modificare quello del predecessore, nel senso però di un approfondimento e non di una rottura. Effettivamente Benedetto XVI ha fatto un discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre 2005, che rimane una pietra miliare: l’innovazione non può andare in discontinuità con la tradizione, sia quanto al modo di intendere il Vaticano II, sia alla liturgia. Altrimenti, chi assicura che un domani la Chiesa non finisca per negare quanto oggi afferma? Ciò renderebbe insicuro l’atto di fede. Quel che era sacro, perciò, come egli ha scritto nel Motu Proprio Summorum Pontificum, resta sacro e non può essere all’improvviso proibito o ritenuto dannoso. Del resto, un’affermazione analoga si trova nella Costituzione Apostolica Missale Romanum, con cui Paolo VI lo promulgò: esso voleva essere una “renovatio”, un nuovo libro liturgico, che esprime e alimenta la fede della Chiesa, che si poggiava su ciò che l’ha preceduto. Se si leva l’“appoggio”, il fondamento del Messale damasiano-gregoriano-tridentino, non sta in piedi nemmeno quello paolino.


La sensazione che serpeggia nella Chiesa è quella di una rottura sempre più profonda tra (semplificando) due visioni liturgiche, ecclesiologiche, teologiche. L’ermeneutica della continuità propugnata da Benedetto XVI pare sfumare nella temperie ecclesiale odierna. Al contrario, i sostenitori dell’ermeneutica della rottura stanno uscendo allo scoperto con sempre maggior vigore. Quest’intervista e altre esternazioni di questi giorni sembrano far trasparire questa situazione. È così, o bisogna prendere in considerazione un’altra lettura?

Nel 1999, Pietro Prini scrisse Lo scisma sommerso. L’anno scorso, Antonioli e Verrani Lo scisma emerso. Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. La storia della Chiesa, sin dal tempo apostolico, ha visto eresie, scismi e para-sinagoghe, per dirla con san Basilio, eppure la Cattolica è qui ancora oggi. Il segreto? Nemmeno troppo: è fondata, anzi unita a Cristo, come il corpo al capo. Quando le membra si ammalano, bisogna prendersene cura tutti, a cominciare dai pastori. Cosi, ha fatto papa Benedetto col suo pensiero e la sua azione, in specie verso i sacerdoti e i seminaristi. La prima cura è la dottrina ovvero l’insegnamento della fede trasmessa dagli apostoli, via via arricchitasi e non depauperata. La seconda cura è la liturgia sacra: altrimenti, come egli ha scritto, dal crollo della liturgia dipende la crisi della Chiesa. Ora, anche grazie a lui, da tanti segni che emergono, il sacro sta rinascendo e il futuro della fede è assicurato.


Alcuni pensano che la morte di Benedetto XVI porterà ad un inasprimento e ad un’accelerazione di una determinata “agenda” all’interno della Chiesa, che avrebbe visto come tappa importante proprio l’abolizione del motu proprio Summorum Pontificum e la messa al bando della liturgia in vetus Ordo. È una preoccupazione fondata? Come si prospetta il futuro prossimo in questo senso?

Dipende. Ma i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini: questi non possono nulla, se un’opera viene da Dio. Sta avvenendo che molti sacerdoti, in tutto il mondo, nonostante le restrizioni, celebrando la Messa in Vetus Ordo, imparano a celebrare con devozione e ordine la Messa ordinaria. Dunque, è già in atto la “riforma della riforma”, auspicata da Joseph Ratzinger. Se nulla accade per caso, tantomeno la morte di papa Benedetto. Gesù, non ha detto che il chicco di grano se muore porta molto frutto? Dobbiamo pregare e procedere con la pazienza dell’amore.

Qui sotto il video con i sottotitoli in italiano

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Don Nicola Bux:

GESÙ È NATO IL 25 DICEMBRE: LE COORDINATE DI LUCA, "dopo aver fatto diligenti ricerche"

L’evangelista Luca, nel prologo del suo vangelo (1,1-4), dichiara: “Poiché molti si sono accinti a comporre una narrazione degli avvenimenti compiuti in mezzo a noi, come ci hanno trasmesso coloro che fin da principio ne sono stati i testimoni oculari, e sono divenuti ministri della parola, è parso bene anche a me, dopo aver fatto diligenti ricerche su tutte queste cose, fin dalle loro origini, narrartele per iscritto, con ordine, o nobile Teofilo, affinché tu riconosca la verità degli insegnamenti che hai ricevuto”. Egli, quindi, intende inquadrare storicamente Gesù e la sua nascita, pertanto fornisce subito la prima coordinata: “Al tempo di re Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abia… Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale…Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. Dopo quei giorni Elisabetta concepì e si tenne nascosta per cinque mesi” (1,5-25). Luca, così, comincia il suo vangelo riportando una tradizione giudeo-cristiana di Gerusalemme, antecedente alla distruzione della città nel 70 d.C. E’ un fatto apparentemente marginale ma storicamente verificabile dai suoi contemporanei: l’angelo Gabriele aveva annunziato al sacerdote Zaccaria, – mentre «esercitava le sue funzioni davanti a Dio, nel turno (in greco taxis) della sua classe (in greco ephemeria)», quella di Abia (Lc 1,5) – che la sua sposa Elisabetta avrebbe concepito un figlio. L’evangelista, rimanda pertanto ad una rotazione disposta da David (cfr.1Cr 24,1-7.19): le ventiquattro classi sacerdotali si avvicendavano in ordine immutabile nel servizio al Tempio da sabato a sabato, due volte l’anno. Questo era noto tra i giudei e quindi nell’ambito dei giudei convertiti al cristianesimo: i giudeo-cristiani. Il turno di Abia a cui accenna Luca, cadeva quell’anno nella seconda settimana del primo mese, Tishri , tra il 22 e il 30 settembre (il mese lunare non coincide con quello solare, perciò le altre due settimane in questo caso occupano la prima parte di ottobre). Si veda l’apocrifo Libro dei Giubilei, nel saggio del professor Shemaryahu Talmon, studioso dei rotoli di Qumran che conobbi a Gerusalemme alla fine degli anni ’90. Il calendario ebraico è suddiviso in dodici mesi lunari, che hanno nomi e durata diversi rispetto a quelli solari; pertanto, ogni due o tre anni, viene aggiunto un altro mese, ridotto quanto a numero di giorni, affinché l’anno abbia la stessa lunghezza di quello solare; esso ha inizio col mese di Tishri, corrispondente appunto al nostro settembre.

Ma, in quale dei due turni Zaccaria riceve l’annuncio? Ecco che l’evangelista fornisce la seconda coordinata: “Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria…” L’annuncio dell’angelo a Maria avviene nel “sesto mese” del calendario ebraico, Adàr, corrispondente a marzo, verso la fine (Lc 1,28), il 25, nei calendari bizantino e romano. Perché? Perché quel sesto mese è pure il “sesto mese” dalla concezione di Elisabetta. Dunque, quale ultima conseguenza, è attendibile la data del 25 di Kislèw (dicembre), nove mesi dopo il 25 di Adàr (marzo).

Ma, ecco la terza coordinata di Luca: “Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei…”(1,26-38). Ora, abbiamo detto che il primo mese del calendario ebraico è Tishri, e che l’annuncio a Zaccaria era avvenuto nell’ultima decade, durante il secondo turno di Zaccaria al Tempio: al 23 settembre lo fisseranno i calendari bizantino e romano. In tal modo si dimostra storica anche la data della nascita di Giovanni Battista nove mesi dopo, corrispondente al 24 di Sivàn (giugno): “Per Elisabetta intanto si compiva il tempo di partorire e partorì un figlio” (1,57-66).

La quarta coordinata di Luca, riguarda la visitazione di Maria ad Elisabetta, appena dopo l’Annunciazione: In quei medesimi giorni, Maria si mise in viaggio, in tutta fretta, per la montagna, verso una città di Giuda; ed entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta…Maria rimase con lei circa tre mesi, poi se ne ritornò a casa sua” (1, 39-56). Probabilmente dopo aver assistito alla nascita di Giovanni.

La quinta coordinata che ci offre l’evangelista Luca per stabilire l’anno della nascita di Gesù è l’editto di Cesare Augusto: “In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutto l’impero…E mentre si trovavano là, si compirono i giorni in cui ella doveva avere il bambino, e diede alla luce il suo figlio primogenito…” (2,1-7). Quando è avvenuto il censimento? Ovvero, in quale anno del calendario romano? Il censimento è solo parte della questione della storicità della data del Natale. Non possiamo, ovviamente qui addentrarci nei dettagli su questa vicenda…Ma, anche in questo caso, si deve notare che con troppa facilità si è parlato di errore di calcolo del monaco Dionigi (fine V- inizi VI secolo): egli era stato incaricato dalla Chiesa di Roma di proseguire la compilazione della tavola cronologica della data di Pasqua preparata a suo tempo in Egitto dal vescovo Cirillo Alessandrino. Dionigi però non partì dalla data d’inizio dell’impero di Diocleziano (285 del nostro calendario cristiano) – data che ancora oggi la Chiesa Copta adopera per il computo del suo calendario, cioè l’inizio dell’era dei martiri – ma dall’incarnazione di Gesù Cristo. Sebbene non si conosca esattamente il metodo da lui seguito, come appena detto, da molti è data per assodata la tesi che si sarebbe sbagliato, ponendo la nascita di Gesù “dopo la morte di Erode”, ovvero quattro o sei anni dopo la data in cui sarebbe avvenuta, e che corrisponderebbe al 748 di Roma. Si può dimostrare che invece non è così, perché le obiezioni mosse ai suoi calcoli non tengono conto, per esempio, che Giuseppe Flavio, al quale normalmente ci si riferisce per questa ed altre datazioni, si è sbagliato, e proprio sulla morte di Erode il Grande, in base ad un’eclissi lunare da lui ricordata. Inoltre, gli si imputa di non aver usato lo zero nel computo, cifra che a quel tempo non era stata ancora inventata (Cfr. G.Fedalto, <>Quando festeggiare il 2000? Problemi di cronologia cristiana, Torino,1998). Dunque la cronologia deve essere ricostruita comparando tavole cronologiche differenti.

Dionigi, in ogni caso, recepì la data del 25 dicembre che non era stata introdotta arbitrariamente dalle Chiese cristiane. Secondo Tertulliano, Gesù sarebbe nato nel 752 di Roma, 41° anno dell’impero di Augusto.

Da quanto detto fin qui, ci domandiamo: la data della nascita di Gesù è veramente il 25 dicembre? Che cosa ci permettono di accertare le scienze storiche? Che Gesù sia nato il 25 dicembre, lo afferma con chiarezza per primo il sacerdote Ippolito di Roma nel suo Commento al libro del profeta Daniele, scritto verso il 204 d.C.: lo ha ricordato a tutti Benedetto XVI, nell’Udienza generale del 23 dicembre 2009. Si aggiunga un’omelia di Giovanni Crisostomo sul Natale, nel 386, in cui sostiene che la Chiesa di Roma conosceva il vero giorno (25), perché gli atti del censimento eseguito per ordine di Augusto in Giudea, si conservavano negli archivi pubblici di Roma.

Ma, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, si divulgò, da parte di liturgisti, come Duchesne e Botte, l’idea che il 25 dicembre fosse una data convenzionale, scelta dai cristiani di Roma per sostituire il Dies Natalis Solis Invicti: la nascita del Sole invincibile, perché col solstizio d’inverno, la giornata riprende ad allungarsi. In realtà, soprattutto dopo l’editto di Costantino(313), la Chiesa avrebbe pure potuto essere mossa dal desiderio di valorizzare qualche festa del paganesimo decadente, ma non inventare di sana pianta una data così centrale. Semmai avesse voluto cercare un nesso, sarebbe andata in direzione del 25 di Kislèw, il nostro dicembre, in cui si celebra la ri-dedicazione del Tempio, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. (cfr 1Mac 4,59). Una coincidenza?

Se Ippolito romano attesta nel 204, che Gesù è nato il 25 dicembre, e la festa del Sol invictus – forse il dio Mitra o l’imperatore – intorno al solstizio invernale, fu introdotta da Eliogabalo nel 218 e poi istituita da Aureliano nel 274, entrambe quindi successivamente, vuol dire che furono i pagani a tentare di oscurare la data del Natale cristiano. I cristiani subirono la celebrazione della festa del Sole invincibile, perché erano perseguitati. Dopo la libertà concessa da Costantino, i cristiani d’Occidente, poterono celebrare il Natale apertamente. Poi, la crisi del paganesimo fece sì che la festa del ‘Sole invitto’, fosse oscurata da quella del vero “Sole invincibile”, Gesù Cristo. In Oriente i cristiani continuarono a celebrarla il 6 gennaio, perché ritenuta più vicina al loro solstizio. Nel Medioevo si produsse lo scambio: il 25 dicembre fu accolto nel calendario bizantino, come festa di Natale, e il 6 gennaio dal calendario romano, come festa dell’Epifania.

Tornando all’annuncio a Zaccaria, nel calendario liturgico siriaco v’è il Subara, il tempo dell’annuncio, costituito da sei domeniche (v. Avvento ambrosiano) la prima dedicata all’annuncio della nascita di Giovanni al padre Zaccaria, celebrato al 23 settembre dal calendario bizantino e dal calendario di Gerusalemme, seguito dalla chiesa latina di Terrasanta. Così i bizantini e i latini conservano al 23 settembre una data storica quasi precisa. Altrettanto dicasi per la data delle feste della natività del Battista, dell’annunciazione a Maria e della natività di Gesù. Si pensi che nel rito bizantino la data dell’Annunciazione prende il posto della domenica e del giovedì santo, e se coincide con la Pasqua si canta metà canone – la composizione poetica propria della festa – dell’una e dell’altra. Dunque, la liturgia della Chiesa, ha fissato e commemorato queste date innanzitutto storicamente (v. la Circoncisione all’ottavo giorno dopo la nascita, la Presentazione al quarantesimo), in special modo il Natale del Signore al 25 dicembre.

Che la data del Natale sia stata a volte assimilata a quella del 6 gennaio, è dovuto al fatto che il calendario bizantino ricordava un insieme di eventi epifanici (l’arrivo dei Magi, il battesimo al Giordano, le nozze di Cana), ma anche al fatto che le Chiese si comunicavano le date delle celebrazioni e avevano possibilità di verificarne l’attendibilità storica. Luca, infatti, osserva che Gesù al momento del battesimo «stava cominciando quasi i trent’anni» (Lc 3,23): dunque un compleanno di Gesù, il trentesimo. Se Gesù è stato battezzato il 6 gennaio, in quella data trent’anni prima è nato. In origine, come ancora attestano l’oriente bizantino e il breviario romano, il 6 gennaio era la Teofania del Signore alle acque del Giordano. Una tradizione trattenuta dai Padri, ad esempio san Massimo di Torino: «La ragione esige che questa festa segua quella del Natale del Signore, perché i due eventi si verificarono nel medesimo tempo anche se a distanza di anni» (Discorso 100 sull’Epifania, 1; CCL 23,398).

Dunque, la memoria ininterrotta fu consacrata dalla liturgia, ma il vangelo di Luca, con i suoi accenni a luoghi, date e persone, vi ha contribuito in modo fondamentale.

I moderni strumenti di indagine permettono di collegare i dati con gli elementi astronomici che ne garantiscono la precisione; si superano così i contrasti tra mondo ebraico e cultura cristiana che possono aver condizionato gli storici, anche per il fatto che gli ebrei non avevano un calendario fisso, ma lo formulavano in base all’osservazione diretta dei vari fenomeni astrali, in specie il novilunio che determinava le feste, per far corrispondere l’anno lunare a quello solare. Ma non di rado tale calendario differiva dalla realtà astronomica (cfr G. Ricciotti, Vita di Gesù (1941), Milano 2006, p. 178ss. Per altri approfondimenti; N. Bux, Gesù il Salvatore. Luoghi e tempi della sua venuta nella storia, Cantagalli, Siena 2009).

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Don Nicola Bux:

Rupnik, tra Tutankhamon e Disney

Sebbene da parte di molti teologi e liturgisti si richiami di frequente il celebre principio lex orandi-lex credendi, a ricordare che tra la fede e la preghiera, tra la dottrina e la liturgia che hanno prodotto la musica e l’arte sacre cristiane, vi sia un nesso indissolubile, assistiamo da decenni alla rottura e discontinuità tra essi. L’innovazione ha cancellato la tradizione, invece di mantenersi in equilibrio con essa, la riforma è diventata rivoluzione, in quanto non è stata condotta in base a criteri di scelta dell’antico. La Chiesa cattolica è a un bivio: o conservare innovando, cioè riproponendo mutatis mutandis, la tradizione delle immagini nel luogo di culto, o replicare malamente l’iconografia orientale oppure l’aniconicità protestante. Ad evitare tale rischio e riparare i guasti ove già consumati, urge la comprensione dell’unità sussistente tra simbolismo liturgico dei riti, loro interpretazione mistagogica e disposizione iconografica. Ne dipende la comprensione della verità cattolica. L’icona è la presenza divina, una finestra sul Mistero, dice l’Oriente slavo: serve per indicare all’uomo: qui c’è Dio. E se c’è Dio, cosa si fa: si deve coltivare il rapporto (colere) con lui: ecco il culto.

Il card. Thomas Spidlik, uno dei noti teologi cattolici della spiritualità orientale, era contrario alle icone orientali nelle chiese occidentali, perché esse si possono comprendere perfettamente solo nella liturgia orientale; senza questa, le icone sono oggetti certamente belli, straordinari, ma, staccati dal contesto per il quale vengono creati, perdono il loro significato. Si capisce subito che da noi le icone sono estranee al contesto, ma inserite per esotismo. Certamente le icone non riempiono il vuoto creato dalla iconoclastia postconciliare e dalla confusione vigente nella liturgia, anzi, paradossalmente le aggravano; anche perché il popolo non le capisce e non le venera, e noi sappiamo che le icone esistono per essere venerate. Infatti una immagine sacra non è fatta per il gusto dell’artista, ma per la venerazione di colui che rappresenta: il Signore, la Vergine, i Santi.
Simbolismo e raffigurazione non sono la stessa cosa, nell’arte come nella liturgia. Così si andarono definendo tre tipologie di immagini cristiane: simbolica, allusiva ai sacramenti e parabole; narrativa, di episodi biblici, evangelici o di santi; iconica, cioè immagini per il culto. Proprio su quest’ultimo tipo si aprì la discussione nell’VIII secolo, sfociato nell’iconoclasmo, con conseguenze drammatiche sulla tenuta della Chiesa d’Oriente; ma fu gradualmente confutato riaffermando il dogma dell’incarnazione, col concilio Niceno II(787), che tra i suoi principali attuatori ebbe san Giovanni Damasceno.
Il padre Rupnik, non so se si sia posto il quesito: dai miei mosaici, il fedele è indotto a venerare i prototipi che rappresentano, o si ferma solo all’ammirazione estetica? Se poi dinanzi ad essi si svolge la liturgia, questa non diventa una “danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”(J.Ratzinger)? Si pensi ai mosaici della cripta dove è esposto san Pio da Pietrelcina, che hanno portato ad etichettarla come “tomba di Tutankhamon”. C’è un modo, invece, di fare arte sacra, che Dio stesso ha rivelato, che mantiene in unità il rito, l’arte e l’interpretazione della liturgia, per non scadere in “un imparaticcio di usi umani”(Is 29,13), cioè nell’idolatria. L’incarnazione del Verbo – non quella dell’artista – è la condizione senza la quale non ci può essere liturgia e nemmeno iconografia. Ecco delineato lo spirito della liturgia, non solo orientale, collegato al concetto di culto e di liturgia celeste e terrena, al mondo visibile come segno dell’invisibile. Ecco il mistero della presenza sacra nell’icona come, seppur ad altro livello, nell’Eucaristia. Così la presenza divina guarisce l’uomo e lo trasforma in santo, lo santifica. La teologia orientale sostiene la deificazione dell’uomo in Cristo. Se si prescinde da questo e dall’incarnazione del Verbo, la liturgia e l’iconografia scadono nella mitologia. Lo sviluppo in essa dell’allegoria, vuol rendere presente il mistero di Cristo, dal suo ingresso nel mondo al suo ritorno per giudicare il mondo. La liturgia è capace di velare e svelare, di celare e di far capire, perché non è possibile comprendere tutto nello stesso tempo; molte cose si capiranno solo successivamente, dice Gesù agli apostoli. La liturgia e le immagini servono a sentire il “Dio vicino”, che è il cuore del cristianesimo, a differenza dell’ebraismo che lo attende ancora o dell’islamismo che lo considera irraggiungibile. Gesù è il Dio vicino, che entra nella vita dell’uomo.
Quindi la liturgia e l’iconografia cristiana non possono essere mitologiche o tendenti all’astrazione. Si guardino gli occhi nelle figure di Rupnik: sono indefiniti come quelli dei personaggi disneyani; ciò condiziona le figure, facendo scadere la scena quasi a raffigurazione gnostica.
L’iconofilia che ha preso i latini sa di patologia. Avendo abbandonato o addirittura distrutto la tradizione figurativa occidentale, si cerca di riempire il vuoto, prendendo le icone orientali e mettendole nel nostro contesto culturale: una de-culturazione. L’icona orientale nella liturgia romana è un pesce fuor d’acqua! Eccezion fatta per quelle icone arrivate a noi nel Medioevo quando la liturgia romana era più simile alla bizantina e che hanno avuto la fortuna di godere della venerazione dei fedeli. Si dirà che non favoriamo lo scambio tra l’oriente e l’occidente. Non è così: deve svilupparsi la conoscenza delle rispettive tradizioni, ma rimanendo nella loro differente ricchezza; proprio questo e non il bricolage favorisce lo scambio.

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Nicola Barile

University of California, Berkeley

«UN SOLO DESIDERIO, ESSERE DOVE DIO VUOLE CHE SIAMO E FARE CIÒ A CUI DIO CI CHIAMA»
Una riflessione dell’arcivescovo José Gómez, presidente uscente dei vescovi americani

La Conferenza episcopale degli Stati Uniti è solita riunirsi annualmente nel tardo autunno a Baltimora (nel Maryland), prima diocesi cattolica d’oltre oceano (6 novembre 1789).

L’appuntamento di quest’anno era particolarmente atteso, perché i vescovi avrebbero scelto il loro nuovo presidente: mons. Timothy Broglio, ordinario militare per gli USA, la cui elezione ha subito scatenato le reazioni della stampa liberal, che ne ha stigmatizzato le posizioni conservatrici. A parte ciò, vorrei richiamare l’attenzione dei lettori italiani sul discorso di commiato tenuto lo scorso 15 novembre dall’arcivescovo di Los Angeles, José Gómez, che ha guidato i vescovi americani dal 2019 fino ad oggi, su come l’evangelizzazione possa contrastare la crescente secolarizzazione della società con una passione ed un ottimismo salutari per la vecchia Europa. Il monsignore, infatti, è convinto che «Non è inevitabile che il nostro Paese cada nel secolarismo. La stragrande maggioranza dei nostri vicini crede ancora in Dio. Decine e decine di milioni di cattolici servono ancora Dio ogni giorno e stiamo facendo una bella differenza nella vita di questo paese. Il nostro popolo cattolico è maestro e guaritore, cercatore di giustizia e di pace. Stiamo servendo i poveri e i vulnerabili, crescendo uomini e donne virtuosi, costruendo comunità e famiglie forti. In tutta questa terra, i cattolici testimoniano la promessa dell’America che tutti gli uomini e le donne sono creati uguali, che siamo fratelli e sorelle sotto un Dio che ci ama». Penso valga la pena, pertanto, scorrerne il testo, segnalando che il testo integrale dell’arcivescovo Gómez, non nuovo in verità a trattare questo tema (si veda, ad esempio, Come si deve comportare il cristiano nella vita pubblica oggi? Una riflessione dell’arcivescovo di Los Angeles Gómez ), è disponibile QUI.

Nel corso di questo suo ultimo discorso come presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, pertanto, l’arcivescovo José Gómez ha esordito sottolineando la rumorosa cultura mediatica che favorisce quella che papa Francesco ha definito «non un’era di cambiamento, ma il cambio di età». Questo cambio di età è «una lotta in corso per il cuore umano», è la riflessione di Gómez, un momento in cui siamo chiamati a una conversione più profonda, alla santità e ha continuato: «La sfida del ministero in questo momento è come mantenere un qualche tipo di prospettiva. Le prove di questa epoca sono spirituali. C’è una lotta in corso per il cuore umano. Questo cambio di età è un momento apostolico, è una nuova apertura per il Vangelo. Tutti noi nella Chiesa siamo chiamati a una conversione più profonda. Tutti noi siamo chiamati a farci avanti e ad aprire ogni porta a Gesù Cristo, a far risplendere la sua luce in ogni area della nostra cultura e società; per portare ogni cuore a un nuovo incontro con il Dio vivente. Nei suoi discorsi di ritiro alla nostra assemblea speciale di giugno, l’arcivescovo Anthony Fisher di Sydney ci ha ricordato la nostra identità e missione di vescovi. Ci ha ricordato che siamo successori degli apostoli, pastori e predicatori, missionari ed evangelizzatori della cultura. E il nostro ruolo è cruciale».

L’arcivescovo Gómez ha, a questo punto, presentato la testimonianza di due donne e un uomo, ciascuno dei quali ha una causa di beatificazione in corso. Il loro esempio, ha detto, può insegnarci oggi cosa significa far risplendere la luce di Cristo «in ogni ambito della nostra cultura e società».

La prima è quella della serva di Dio Dorothy Day (1897-1980), che ha scritto una volta: «Ora c’è uno spazio per i santi più grande che mai. Il mondo non è mai stato così organizzato – stampa, radio, istruzione, ricreazione – da distogliere le menti da Cristo. … Siamo tutti chiamati ad essere santi». L’arcivescovo di Los Angeles ha ricordato che «Dorothy Day ha scritto queste parole nei primi anni ‘40, molto prima della grande tecnologia e di Internet, quindi comprendiamo [che] le sfide che affrontiamo oggi non sono una novità». La Serva di Dio Dorothy Day è tra i beniamini di mons. Gómez e la citazione che ha usato tra le sue preferite, avendola usata in precedenza in altri discorsi pubblici. «Ciò che mi colpisce anche delle sue parole è la sua sicurezza», ha detto il presule. «Dorothy Day era convinta che solo i santi possono cambiare il mondo. E aveva ragione. La santità è sempre stata la forza guaritrice nella storia umana. Il Regno cresce attraverso uomini e donne che amano appassionatamente il mondo, come Dio ha tanto amato il mondo». La necessità di oggi, ha detto Gómez, è «creare una nuova generazione di santi, uomini e donne santi in ogni area della vita americana».

L’arcivescovo si è poi rivolto a quello che ha definito «uno dei momenti più commoventi nella storia di questa conferenza episcopale»: il discorso del giugno 1989 della serva di Dio suor Thea Bowman (1937-1990) all’assemblea, in cui la religiosa esortava all’unità della Chiesa, per «costruire insieme una città santa, una nuova Gerusalemme, dove sapranno che siamo Suoi perché ci amiamo». Gómez ha commentato: «Fratelli, ecco di cosa tratta questo momento; si tratta di ricordare che siamo in questo insieme, che apparteniamo a Dio e che siamo chiamati ad essere santi. Si tratta di ognuno di noi che fa ciò a cui Dio ci chiama per costruire il Suo regno».

L’unità della Chiesa si fonda sull’Eucaristia, ha continuato l’arcivescovo. «Ciò che ci tiene uniti, ciò che ci rende uno, è l’Eucaristia, motivo per cui il nostro movimento di revival eucaristico è così importante. L’Eucaristia è il mistero dell’amore del nostro creatore, del suo desiderio di condividere la sua vita divina in amicizia con ciascuno di noi; quindi apriamo le porte in tutte le nostre chiese, invitiamo la nostra gente a tornare, per vedere quanto Gesù li ama».

L’ultima riflessione dell’arcivescovo Gómez a Baltimora è stata ispirata dalla testimonianza del venerabile Frederic Baraga (1797-1868), primo vescovo di quella che oggi è la diocesi di Marquette (in Michigan). Incisa sul muro di una cappella nella basilica del santuario nazionale dell’Immacolata Concezione c’è questa sua preghiera: «Questo è tutto ciò che desidero, essere dove Dio vuole che io sia». «Fratelli», ha quindi concluso Gómez, «abbiamo un solo desiderio, essere dove Dio vuole che siamo, e fare ciò a cui Dio ci chiama».

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Don Enrico Finotti

"La disciplina liturgica"

La nostra rivista Liturgia culmen et fons ha trattato di una questione grave e di sempre più urgente considerazione: la disciplina liturgica.


Infatti sembra che il dettato conciliare, che nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium si esprime con queste precise parole:

… Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica (SC 22).

sia largamente sconosciuto e quindi disatteso, anzi pare che da alcuni sia ormai ritenuto inadeguato e del tutto superato in nome di una creatività libera, relativa ai mutevolissimi contesti ‘pastorali’ in cui si celebra. Da ciò la confusione liturgica in cui versa una larga parte delle comunità cristiane, ma soprattutto il danno di una mentalità libertaria ormai pervasiva nel tessuto ecclesiale.

L’articolo di fondo della suddetta Rivista, corredato dalle successive integrazioni nelle risposte al lettore, richiede alcune considerazioni previe, che qui esponiamo.

1. Per ritus et preces (SC 48)

Con la breve locuzione per ritus et preces la Chiesa riconosce la necessità intrinseca della disciplina liturgica per l’identità stessa del culto cattolico, che non può realizzarsi in una libera creatività soggettiva, ma deve sottostare al rigore di preci precise e riti ben definiti.

Se ben si pensa l’espressione per ritus et preces non fa che ricondurre ad altre analoghe e ben note locuzioni: gli eventi e le parole che costituiscono la storia della salvezza (DV 2); la materia e la forma dei Sacramenti; le rubriche e i testi dei libri liturgici, ma ancor più in radice il gesto e la parola del linguaggio umano.

Come non è possibile prescindere da queste leggi della comunicazione, basate sull’indissolubile legame tra il gesto e la parola, che lo definisce ed interpreta, così non è concesso di poter celebrare un culto liturgico vero e pieno, senza l’apporto congiunto dei riti e delle preci.

A questa legge si sottopose il Signore che, mediante l’Incarnazione, assunse il linguaggio umano con gesti e parole intimamente connessi. La liturgia infatti attualizza continuamente quei gesti salvifici e quelle parole di grazia, che il Kyrios, ora nel suo corpo glorificato, pone e pronunzia nell’‘Oggi’ del nostro tempo.

2. Il Soggetto della liturgia

Qual è il soggetto agente nelle azioni liturgiche? Dalla risposta a questa domanda dipende la promozione o la dissoluzione dell’intero complesso liturgico.

La risposta è inequivocabile: la liturgia ha come Soggetto Cristo Gesù, indissolubilmente unito alla Chiesa, sua sposa. Ogni atto liturgico è perciò un atto di Cristo e della Chiesa. Questo distinto ed inscindibile Soggetto stabilisce i riti e le preci. Nessun altro potrà creare o mutare quei riti e quelle preci che ha stabilito direttamente il Signore o che nel suo nome avrà stabilito la Chiesa.

Se si accetta questa verità, si libera la mente da ogni tentazione di voler creare un culto soggettivo conforme alle sensibilità effimere delle persone e delle contingenze. La Chiesa sa che soltanto il culto del Figlio unigenito e della Chiesa sua sposa gode dell’accesso alla maestà divina ed ottiene il balsamo della santificazione. Il fedele ben formato sa che la sua preghiera individuale ha un unico accesso a Dio, quello di fondersi umilmente nell’unico culto valido ed efficace, quello di Cristo e della Chiesa. Qui sta il segreto profondo della actuosa participatio (SC 11) alla liturgia.

In tal senso emerge il carattere teocentrico della liturgia e decade la sua mistificazione nell’antropocentrismo imperante.

Coloro che hanno compreso questa verità accettano di buon grado la disciplina liturgica, perché sanno che in tal modo ricevono il pensiero di Cristo e offrono un culto autentico in mistica unione con la preghiera del sommo nostro Sacerdote, che officia perennemente sull’altare celeste.

3. La Tradizione liturgica

Allo stesso modo che noi veniamo a contatto col depositum fidei, consegnato una volta e per sempre agli Apostoli e trasmesso di generazione in generazione nella perenne Tradizione apostolica, riceviamo pure dalla medesima Tradizione il depositum gratiae, ossia quel culto immacolato che il Signore ha consegnato alla sua Chiesa perché glorifichi la Trinità divina con il medesimo culto, puro e santo, che fu il Suo qui sulla terra ed ora arde perenne sull’altare d’oro del Cielo.

La Tradizione è dunque intrinseca alla liturgia cattolica, al punto che, fuori di questa, si esce dal contatto vivo col flusso soprannaturale della Grazia, che pervade unicamente il culto del Figlio di Dio, incarnato e glorificato.

Come non è possibile aggiungere alcunché alla divina Rivelazione dopo la sua chiusura con la morte dell’ultimo Apostolo, così non è possibile ricreare o modificare oggi la liturgia su basi umane ed effimere. Il dogma della fede e la sostanza della liturgia sono perenni e si attingono unicamente con la recezione fedele della loro forma nella continuità della Tradizione apostolica.

Il rigetto della Tradizione è dunque il rigetto di Cristo, che dalla Tradizione ci è consegnato e nella Tradizione opera nel tempo la sua azione santificante. Lo Spirito Santo stesso interviene soltanto lì dove è annunziato ed opera il Logos ed agisce sempre in conformità a quel depositum fidei et gratiae, che il Signore Gesù Cristo ci ha consegnato una volta e per sempre nella pienezza del tempo della sua vita sulla terra.

In tale senso si deve intendere il carattere tradizionale della liturgia.

Ogni sviluppo liturgico è legittimo se nella fedeltà al depositum apostolico e ogni apporto nei secoli deve esibire la sua conformità ad esso. Effettivamente grande fu lo sviluppo della liturgia cattolica, ma soltanto nella linea di quella verità più piena e di quella esplicitazione coerente suscitate dallo Spirito Santo nel cammino della Chiesa verso il compimento definitivo.

Tali apporti, vagliati dal Magistero autentico della Chiesa, rappresentano tappe imprescindibili nell’organismo vivo della liturgia e, nella loro più intima sostanza (SC 21), non possono regredire, ma solo ricevere una maggior purificazione in vista di una più splendida maturazione.

Ed ecco che il monumentum secolare della disciplina liturgica, nella complessità e nell’ordine dei suoi ingredienti, definisce con rigore, conserva con cura e difende con ardore la presenza, il pensiero e il culto del Kyrios, immolato e glorioso.

Fatte queste tre considerazioni previe vi invitiamo alla lettura e alla riflessione sul tema della disciplina liturgica, offerto nella rivista Liturgia culmen et fons (n. 3 del 2022 qui in allegato).

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Don Alberto Strumia:

I “nostri vecchi” e la Provvidenza

I “nostri vecchi” – tra i quali anche i nostri genitori, se erano come si diceva una volta persone “religiose”, che non perdevano mai una Messa alla domenica e magari neanche in giorno feriale – avevano una grande fiducia in quella che chiamavano “la Provvidenza”.

E questa arrivava puntualmente, quasi cronometricamente, sempre al momento giusto, per aiutarli a risolvere una situazione delicata, materiale o di coscienza che fosse. Loro non avevano la pretesa di pilotarla; semplicemente si fidavano, perché sapevano che il Signore c’è e “provvede”; anche quando fa in modo diverso da quello che a noi sembrava dovesse fare. Alla fine si vedeva che aveva avuto ragione Lui. Non c’erano dubbi.
La loro fede, come ogni fede cristiana seria, insegnava loro che non esistiamo solo noi “di qua”, come se il mondo fosse solo una faccenda di materia. O di energia cosmica (oggi fin troppo di moda), che è una “roba pagana”, che identifica Dio con il cosmo, mentre Dio è spirito trascendente, infinitamente superiore all’universo, che è opera della Sua creazione e gli è inferiore e sottoposto, non potendo neppure esistere se Dio non lo volesse e non lo “tenesse su”.
Per i “nostri vecchi” era normale tenere sempre presente che noi, qui sulla terra, siamo “quattro gatti”, e la maggior parte dell’umanità è quella che vive “al di là”, ed è stata “di qua” solo negli anni, nei secoli passati della storia. E poi si ricordavano sempre, in ogni momento, e non solo qualche volta (magari quando pregavano), ma sempre che ci sono gli Angeli, che per ognuno di noi c’è l’Angelo Custode che ti sta vicino sempre, senza distrarsi, per proteggerti. Capita anche a noi di essere acciuffati per i capelli e risparmiati da un incidente che stava per succederci, o di venir fuori da una malattia seria che poteva portarci via. O di essere stati guidati, diciamo pure illuminati, a prendere la decisione giusta al momento giusto. Magari non ci pensiamo e non ce ne accorgiamo e tutto ci sembra essere avvenuto per caso o per un ignoto “meccanismo”. Loro, invece, i “nostri vecchi” sapevano bene che dietro tutto c’è “la Provvidenza”; e ne ringraziavano il Signore. E poi con gli esseri umani che sono “di là” e con gli Angeli, ci sono Dio, Padre, Figlio (Gesù Cristo, il Verbo fatto carne) e lo Spirito Santo, e la Madonna, la Madre di Gesù Cristo, la Madre di Dio. Per loro era normale avere presente che la “realtà” comprende tutti questi – che ci sono per davvero e ci fanno compagnia anche quando siamo soli in casa – e non c’è appena quello che vediamo, tocchiamo, ascoltiamo, mangiamo, respiriamo, in quei pochi anni della nostra esistenza terrena.
Quello che c’è qui non è che la punta dell’iceberg; il “grosso” è “di là” ed è su quello che occorre imparare a contare.
Per cui non sarà poi così tragico se un giorno ci andremo anche noi: basta essere ben consapevoli e preparati, per non perdere “il treno giusto” che ci porta alla beatitudine eterna. Se qui ragioni e vivi come se Dio non ci fosse, dopo un po’ finisci per stare male, perché ti manca il Fondamento di tutto, il senso delle cose; e se non te ne accorgi per tempo sarà così per l’eternità e ti mangerai per sempre le mani per avere voluto prendere la strada delle sole apparenze. Per te sarà per sempre come se Dio non ci fosse, perché saprai che c’è, ma non l’hai voluto e hai diritto, anzi l’obbligo, di continuare a non averlo… ma è l’Inferno! Allora i “nostri vecchi” avevano ragione e conviene imparare a ragionare e a vivere con la stessa visione delle cose che hanno avuto loro, che è più cristiana e più umana. Provare per credere!

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Nicola Barile

University of California, Berkeley

Recensione del libro di Stefano Fontana, "Ateismo Cattolico?"

Il nuovo libro di S. Fontana, Ateismo cattolico? Quando le idee sono fuorvianti per la fede (Fede & Cultura, Verona 2022), propone la nozione di «ateismo cattolico» per spiegare una certa deriva della fede cattolica: lo fa attraverso nove capitoli, più o meno della stessa lunghezza, anche se non di uguale importanza.

Il lettore può leggere il cuore della proposta di Fontana nell’introduzione e, soprattutto, nei primi due capitoli, che definiscono cosa sia appunto l’«ateismo cattolico» (pp. 5-48).

I capitoli successivi sono più che altro una applicazione del concetto di «ateismo cattolico» a una serie eterogenea di vicende e protagonisti del mondo cattolico (dal magistero sociale postconciliare alla scuola parentale, da Dante a Chesterton), non selezionati secondo un criterio evidente (per esempio, quello cronologico), né sempre chiaramente connessi con l’argomento principale dell’«ateismo cattolico» (si veda, ad esempio, il capitolo sul magistero sociale postconciliare, pp. 125-143), sicché si ha piuttosto l’impressione di scritti ripubblicati per l’occasione di questo volume.

Ma cos’è l’«ateismo cattolico», secondo Fontana? E perché è seguito nel titolo da un punto interrogativo? In effetti, il punto interrogativo si rende necessario per la contraddizione della nozione proposta, che mette insieme due elementi apparentemente in contrasto fra loro (la fede e la sua negazione, ovvero l’ateismo). Questo accade, secondo Fontana, quando la fede, per costruire la sua teologia, si avvale di uno strumento filosofico inadeguato o addirittura fuorviante, che deforma dall’interno la comprensione delle verità di fede, svuotandola dei suoi contenuti e mantenendola così solo nel suo aspetto soggettivo, senza che ci sia la possibilità di recedere da tale tentativo, perché si tratta di gesto condiviso, in quanto ritenuto in conformità con lo spirito del tempo.

Viene immediatamente da pensare al filosofo ed economista Karl Marx, ritenuto ancora in pieno XX secolo «uno degli ultimi pensatori scolastici», per la sofisticata articolazione del suo metodo dialettico, in realtà incompatibile con la fede cristiana. Fontana, invece, si sofferma su autori già da lui considerati, come l’illuminista Immanuel Kant, perché «l’esaltazione della religione in Kant non è veramente tale, essendo essa non altro che un nome diverso per una morale pienamente autonoma, una esigenza o una condizione della morale» (p. 56). È un’affermazione che sconta ancora una interpretazione dell’illuminismo come età ostile al cattolicesimo, non del tutto supportata, tuttavia, dalla storiografia. Fontana, mettendo praticamente sullo stesso piano la morale elaborata da Kant e l’autonomia proclamata dal liberalismo contemporaneo, avrebbe semplicemente fatto inorridire il filosofo illuminista, che credeva pur sempre in una morale oggettiva («ragione pratica») che l’autonomia ci dà i mezzi e l’opportunità di seguire, non già in una morale autoprodotta dalle scelte private dell’individuo.

La più sofisticata analisi delle tracce di ateismo cattolico, se l’ho intesa rettamente, si trova forse nel capitolo su Dante (pp. 108-124) o, meglio, su come lo storico della filosofia cattolico Étienne Gilson ha interpretato un passo della Monarchia del grande poeta medievale (III, 16), là dove si legge che l’uomo possiede due fini ultimi, uno da conseguire in questa vita, prima della morte, l’altro nella vita futura, dopo la morte. Gilson nota giustamente che, secondo il De regimine principum di San Tommaso d’Aquino, l’uomo ha invece un solo fine ultimo: la beatitudine eterna, cui è chiamato da Dio e che può attingere solo per mezzo della Chiesa, fuori della quale non c’è salvezza. Questa è, appunto, la ragione per cui i prìncipi di questo mondo sono sottomessi al papa, come a Gesù stesso, di cui questi è il vicario.

Dante rifiuta questa conclusione; per questo motivo, eleva anche il fine della vita politica alla dignità di fine ultimo, facendo così del potere imperiale una autorità senza appello nel proprio ordine, come lo è il pontefice romano. Ha dunque Dante anticipato la laicità e l’autonomia della politica, emancipando l’imperatore dal papa?

Credo che la contraddizione rilevata da Gilson, e sottolineata da Fontana, tra San Tommaso e Dante si possa risolvere se si pensa che, nel medioevo, era generalmente ammessa l’origine del potere imperiale dai bisogni umani e dall’umana convivenza, come insegnato dal diritto romano; per San Tommaso era però pericoloso ammettere l’esclusione dell’origine immediatamente divina del potere ecclesiastico per quel che riguardava il papato.

Non la pensa così Dante, la cui Monarchia, invece, di tomistico conserva le distinzioni del diritto in divino, naturale ed umano, i concetti di beatitudine terrena ed eterna come finalità dello stato celeste e di quello terreno, l’ideale monarchico, l’idea cattolica della dominazione universale e, soprattutto, l’intero apparato della dimostrazione teologica e deduttiva, ma non la fede politica. Ma questo è, evidentemente, un altro discorso, che riguarda l’interpretazione della Monarchia.

A parte questi rilievi, suggeriti dalla stimolante lettura dell’Ateismo cattolico?, per i numerosi spunti di riflessione e le occasioni di approfondimento offerti, il lettore, pertanto, può ben rendersi conto della fecondità del libro di Fontana, che racchiude, in definitiva, il senso della stessa fecondità della risposta positiva della filosofia di San Tommaso alla domanda se esista qualcosa; rispondendo negativamente, l’ateismo cattolico nasce invece già morto.

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