Il Pensiero Cattolico

7 Marzo 2025

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Quo vadis? Chiesa dove vai?

Dalla conferenza tenuta a Piazza Armerina da Don Nicola Bux e Don Pasquale Bellanti [ Video ]

Il celebre episodio apocrifo del “Quo Vadis”, nel quale il Signore, a Pietro che vuole andare via da Roma, dice: “Vado a morire al tuo posto”, induce all’interrogativo: La Chiesa dove sta andando, va via da Roma? Incrocia ancora il suo Signore che vuole farla tornare a quei principi che le sono sempre appartenuti e che ora non sembrano più essere tali?

La Chiesa nell’attuale “cammino sinodale” si trova a percorrere sentieri intrisi di filosofia hegeliana, secondo la quale i fatti della fede sono conoscibili secondo la sola ragione, nel frattempo indebolita da altre percezioni esperienziali in gran parte emotive.
Oggi sembra che lo Spirito Santo, tanto evocato come elemento di novità, debba inaugurare un’epoca diversa da quella di Cristo, quando invece è stato inviato da Cristo affinché l’uomo possa meglio comprendere il Suo insegnamento, di Cristo, appunto, e non un insegnamento a sé stante o addirittura sostitutivo. Questa “stagione dello Spirito Santo” viene presentata, non raramente, come novità contrastante con ciò che Cristo ha insegnato e predicato, e questo non fa altro che ingenerare smarrimento, perplessità nei fedeli più consapevoli; in una sola parola, confusione. Per potersi correttamente orientare bisogna innanzitutto distinguere tra Chiesa e uomini di Chiesa con una certezza: La Chiesa è nelle mani del Signore, che l’ha affidata agli uomini peccatori, e non agli angeli, affinché, in un percorso di purificazione, potessimo elevarci, perfezionandoci attraverso i Sacramenti e la Parola di Dio, senza scandalizzarci delle nostre debolezze; non arrivando mai, però, a giustificarle. E’ già capitato nel corso della storia della Chiesa che i suoi uomini abbiano perseguito a vari livelli – di conoscenza, di vita morale- strade diverse indicate da Cristo. La Chiesa però con il suo magistero, ha sempre ritrovato il giusto sentiero sulle orme del Signore.
Quale metodo seguire in questa confusione crescente per non perdere la bussola? Quello suggerito sa San Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi 5,21-22: “Vagliate tutto e trattenete ciò che vale. Astenetevi da ogni specie di male”. Ciascuno di noi è chiamato a seguire questa norma di comportamento, servendosi di due strumenti: La Parola di Dio e il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Il fedele ha il dovere di prendere le distanze da insegnamenti di uomini di Chiesa che cercano di far prevalere le loro idee piuttosto che la Parola di Dio, e deve chiedere ragione, altrimenti diventa complice. Facendo tutto con dolcezza e rispetto, con la carità che ebbe Nostro Signore durante la sua passione, subendo, senza ribellarsi, il processo davanti alle autorità politiche e religiose; proclamando la verità e accettando, come Lui, ove non ci fosse altra via, il martirio. Rimanendo sempre all’interno della Chiesa che è il Suo Corpo.

Augustinus Hipponensis

Joseph Ratzinger, il gesuitismo e S. Pietro: questioni di coerenza

Sed si subtiliter veritas ipsa requiratur,

hoc quod inter se contrarium sonuit,

quomodo contrarium non sit, invenitur

(S. Gregorio Magno, Homilia 7 in Evang., n. 1)

Secondo alcune prospettazioni, Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, con il suo atto volontario di rinuncia, si sarebbe posto volontariamente in una condizione di auto-impedimento della sede e ciò allo scopo di “scismare” – si adopera proprio questo termine – gli eretici e gli oppositori al suo governo.

L’interrogativo che sorge è se questo piano, così congeniato, possa definirsi cattolico. Ne dubitiamo. Per coloro, che sostengono, invece, questa linea interpretativa, ciò sarebbe avvenuto, in quanto Benedetto XVI avrebbe agito nell’ambito di una restrizione mentale larga, modalità di azione, la quale – si afferma – sarebbe ammessa dalla teologia morale.
Andiamo con ordine.
Ad onor del vero, non ci sembra possibile applicare al defunto papa Benedetto le categorie moralistiche della restrizione mentale larga.
Per comprendere di cosa si tratta, dobbiamo ricordare che la restrizione mentale si verifica allorché, quando si comunica qualcosa, si restringe il significato delle parole che si proferiscono ad un altro senso, che non sarebbe così ovvio. In tale evenienza, se non vi sono circostanze esterne che aiutino l’ascoltatore o lettore a capire il diverso senso delle parole che si ascoltano o si leggono, si cadrebbe in un fenomeno di restrizione mentale stretta detta anche restrizione puramente mentale. Se, per es., si dicesse di aver visto una persona e non ci sarebbe alcuna circostanza esterna (ad es., un ritratto), che permettesse di poter intendere che si è vista quella persona solo in ritratto e non fisicamente, quell’affermazione sarebbe semplicemente menzognera e, quindi, immorale.

Tuttavia, v’è anche un altro tipo di restrizione mentale: quella larga. Il suo scopo intrinseco non sarebbe quello indurre in errore, ossia far credere il falso, ma nascondere la verità in casi nei quali questa verità non debba essere manifestata, per es. per salvare delle vite umane.

La restrictio late mentalis con l’intenzione di nascondere la verità non è però lecita senz’altro e senza limiti: certamente si può tacere, a certe condizioni, una parte della verità, facendo appello al principio che non sempre è obbligatorio dirla positivamente, contemperando in tal modo le esigenze di giustizia con quelle della verità, ma altrettanto certamente mai la si può negare. I moralisti seri – i probati auctores – avevano però già messo le cose in chiaro, spiegando che, se il tacere la verità stravolga il senso di quello che si dice e induce in grave errore, non sarebbe più omissione di verità ma commissione di falsità … Questo va tenuto ben chiaro.

Quali sarebbero, dunque, le condizioni per una restrizione mentale larga? Si richiede che il nascondere la verità sia doveroso, o almeno molto utile, e non ci siano altri mezzi disponibili che questo. Queste sono le condizioni perché questa modalità di azione possa ritenersi lecita moralmente, che, in ogni caso, deve ritenersi non mezzo ordinario, ma eccezionale, in vista di un fine superiore, considerato doveroso o, almeno, utile.

Sulla casistica e sulla liceità morale di questa modalità di azione si è più volte interrogata la teologia morale, praticamente dai tempi di S. Agostino, e segnatamente sul quesito se sia lecito sempre e comunque dire la verità, anche allorché da questa possa derivare un grave danno per sé, ma soprattutto per gli altri (ad es., in tempi di persecuzione).

In epoca moderna, essa è stata una metodica particolarmente cara ai gesuiti, i quali pensavano di trovare un antecedente di questo trucco addirittura nel Vangelo di Giovanni, laddove Gesù dichiarava che non sarebbe andato in Giudea, quando invece vi andò “non pubblicamente, ma di nascosto”. Altro esempio lo si rinvenirebbe nel libro della Genesi allorché Abramo suggerì a sua moglie Sara, che era molto bella, che dicesse a tutti di essere sua sorella, in quanto temeva che, se avesse detto che egli fosse il marito e che l’aveva sposata ad Ur (Gen 11, 28-29), l’avrebbero ucciso pur di prenderla con sé (Gen 12, 13). Così Sara disse di essere sorella del Patriarca tanto al faraone d’Egitto (cfr. Gen 12, 11-13) quanto ad Abimelech (Gen 20,12). In seguito, Abramo spiegò ad Abimelech che Sara era davvero sua sorella, poiché condividevano lo stesso padre, Terach, sebbene avessero madri diverse.

Anche nella vita di Santi potrebbe ricercarsi comportamenti simili.
Un esempio spesso citato è un noto episodio della vita di S. Atanasio di Alessandria. Quando l’imperatore Giuliano l’Apostata stava cercando la morte di Atanasio, questi fuggì da Alessandria e fu inseguito lungo il Nilo. Vedendo che gli ufficiali imperiali stavano guadagnando terreno su di lui, Atanasio approfittò di un’ansa del fiume, che nascondeva la sua barca agli inseguitori, e ordinò a coloro che guidavano la sua barca, che tornassero indietro. Quando le due barche si incrociarono, gli ufficiali romani gridarono, chiedendo se qualcuno avesse visto Atanasio. Secondo le istruzioni del Santo, i suoi seguaci gridarono in risposta: «Sì, non è molto lontano». La barca, che inseguiva Atanasio, risalì allora frettolosamente il fiume, mentre Atanasio tornava ad Alessandria, dove rimase nascosto fino alla fine della persecuzione.

Un altro aneddoto spesso utilizzato riguardava S. Francesco d’Assisi. Una volta egli vide un uomo fuggire da un assassino. Quando poi l’assassino si imbatté nel Santo, questi gli chiese se la sua preda fosse passata di lì. Francesco rispose: «Non è passato di qui», infilando l’indice nella manica della tonaca, ingannando così l’assassino e salvando una vita. Una variante di questo aneddoto è citata dal canonista Martin de Azpilcueta per illustrare la sua dottrina di una parola mista (oratoria mixta), che unisce la parola e la comunicazione gestuale.

I gesuiti – e non solo loro – poi, adoperando di continuo questa categoria di restrizione mentale unitamente all’anfibologia, finirono per cadere nella casistica e nel probabilismo, tanto care a Bergoglio. Non desta meraviglia, quindi, se da ciò si siano accusati i gesuiti del c.d. gesuitismo, ovverosia di ipocrisia e doppiezza, messi anche in ridicolo dai commediografi come Molière, che nella commedia Il Tartufo (Tartuffe ou l’Imposteur), in cui Tartufo sarebbe il prototipo della perversità e della corruzione dissimulate ipocritamente e considerate come personificazione del gesuitismo.

Non a caso, specie nel ‘700, i domenicani criticarono aspramente queste metodologie.
Blaise Pascal, d’altronde, in un celebre passo di una sua opera, metteva in bocca ad un gesuita questa celebre frase: «Una delle cose più imbarazzanti che esistono è quella di evitare la menzogna, soprattutto quando si vorrebbe dare ad intendere una cosa falsa. A ciò serve meravigliosamente la nostra dottrina degli equivoci, grazie alla quale è permesso usare termini ambigui, facendoli intendere in un senso diverso da quello in cui li si intendiamo noi stessi, come dice [Tomas] Sanchez […]»; concludeva che quando non si trovassero parole equivoche, si doveva ricorrere a «la dottrina delle riserve mentali». Aggiungeva, infine, «Sanchez la espone al medesimo luogo: “Si può giurare, dice, di non aver commesso una cosa, sebbene la si sia effettivamente commessa, intendendo dentro di sé di non averla commessa un certo giorno, o prima d’esser nati, oppure sottintendendo qualche altra circostanza simile, senza che le parole di cui ci si serve abbiano senso alcuno che possa farlo capire; e questo è assai comodo in molti casi, ed è sempre giustissimo, quando è necessario o utile per la salute, per l’onore o per i propri beni”» (Blaise Pascal, Lettera IX).

Per Pascal – la cui presentazione della pratica appare più caricaturale che esatta – la riserva consisterebbe dunque nel “dire una piccola verità e una grande menzogna”.

Il papa Innocenzo XI, inoltre, nel condannare il lassismo, aveva anche stigmatizzato, nel 1679, la seguente proposizione ispirata dal Sanchez: «Se uno, da solo o davanti ad altri, interrogato o di sua spontanea volontà, per divertimento o per qualsiasi altro scopo, giura di non aver fatto qualcosa che in realtà ha fatto, intendendo però dentro di se un’altra cosa che non ha fatto, o una via diversa da quella nella quale ha fatto, o una qualsiasi cosa vera aggiunta, in realtà non mente e non è spergiuro» (Denzinger, 2126).

La discussione, intorno, dunque alla restrizione mentale non è stato così pacifico, visto che si è riproposto, come abbiamo detto, in diverse epoche. Per es., nei manuali inquisitoriali erano fornite indicazioni su come ci si dovesse comportare in presenza di imputati che ricorressero a questa metodologia, soprattutto per non rivelare eventuali correi.

Fin dall’inizio del XIII sec., nella Summa poenitentialis, composta tra il 1222 e il 1229, il domenicano S. Raimondo di Peñafort, penitenziere del papa, propose un caso reso classico da sant’Agostino (De mendacio, V, 5; V, 9 e XIII, 22-23) nella seguente forma: come dovesse agire colui al quale si domandasse dove si trovasse, in previsione di ucciderlo, un uomo ch’egli sapesse essere nascosto in casa sua. Per cavarsi d’impiccio, S. Raimondo suggeriva, cosa che Agostino non avrebbe fatto, l’impiego di una locuzione equivoca, “non mangia qui”, in latino non est hic, che però l’interlocutore avrebbe intenso nel senso più ovvio di “non è qui” (est può essere terza persona singolare del presente indicativo di edere, mangiare, come di esse, essere). E ciò per un’evidente buona ragione.

Il problema della restrizione mentale è, quindi, tuttora dibattuto in teologia morale. Certo è che, se tutti la usassero senza limiti ai casi più o meno urgenti, si dovrebbe continuamente temere di essere in errore circa il senso delle parole degli altri, cosa che renderebbe molto difficile la vita sociale e qualsiasi relazione.

Con riferimento a Benedetto XVI, da parte la circostanza che non sono emerse evidenze documentali, che dimostrino che il papa adoperasse questa metodologia e, d’altronde, non si comprenderebbe l’urgenza e la necessità di usarla. Per giunta, se fosse vera la prospettiva di coloro che sostengono che Benedetto avrebbe voluto, così facendo, “scismare” una parte della Chiesa, provocando l’espulsione di una parte, più o meno consapevole, di fedeli dell’intero orbe cattolico, vi sarebbe più di un dubbio sull’utilizzo lecito – da un punto di vista morale – di una siffatta modalità di azione.

Per cui, la figura del defunto papa Ratzinger ne uscirebbe seriamente compromessa, dal punto di vista dell’etica cattolica, dal momento che giammai la Chiesa ha inteso provocare – nella storia – una sorta di espulsione di massa, per giunta inconsapevolmente da parte di molti fedeli. Neppure all’epoca dell’eresia ariana, che pure era la maggioranza ai tempi di S. Atanasio, la Chiesa fece ricorso a siffatto metodo per espellere “senza che se ne accorgessero” gli eretici.
L’erroneità di attribuire a Ratzinger un pensiero quasi di stampo gesuitico si fonda, in realtà, sul convincimento che l’ufficio papale fosse di “proprietà” del papa, che, di volta in volta, lo ricopre; in verità, non è così, giacché esso – come qualsiasi altro ministero nella Chiesa – è di Dio ed è per il bene del gregge e per la gloria di Dio. Gesù stesso, durante la sua vita pubblica, ha indicato che gli uffici nella Chiesa sono a beneficio ed a servizio dei fratelli: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. […] Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».

Se è così, quindi, e se Ratzinger non è proprietario dell’ufficio papale, va dimostrato che abbia concepito il disegno “gesuitico” per il servizio dei fratelli. E che beneficio, di grazia, avrebbe apportato questo progetto alle pecore del gregge, che sono disorientate, confuse e perplesse? Soprattutto se è vero, come sostenuto, che il linguaggio adoperato da Benedetto XVI fosse “anfibologico” e quindi non facilmente intellegibile se non ad una cerchia ristretta di “eletti”, che l’avrebbero decodificato? Se fosse stato a beneficio dei fratelli, avrebbe dovuto parlare chiaro, con il limpido “sì, sì, no, no” evangelici, senza ricorrere ad un linguaggio equivoco, o se vogliamo “politico” o ricorrendo ad una riserva mentale larga.

Né può paragonarsi Ratzinger a Gesù, il quale parlava in parabole con gli avversari (gli scribi ed i settari farisei), ma non con i discepoli, cioè con i suoi seguaci perché, diceva il Signore, «a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato». Al contrario, Ratzinger, stando alle mentovate chiavi di lettura, avrebbe usato il linguaggio “anfibolitico” con chiunque, sia amici sia avversari, senza lasciare alcuna spiegazione (come invece avrebbe fatto Gesù, il quale non mancava di decodificare il suo linguaggio ai discepoli), neppure scritta e post mortem. Almeno, ad oggi, non è noto nulla di tutto ciò.

In ogni caso, Gesù usava un linguaggio anfibolico, che comunque attingeva dalla realtà che aveva dinanzi e che lo stesso adoperava non tanto per celare certe verità agli avversari, quanto piuttosto per venire incontro ai semplici, facendo esemplificazioni tratte dalla vita quotidiana di tutti i giorni.

Comunque, a prescindere dal linguaggio ratzingeriano, assuntamente anfibolico, dicevo Ratzinger avrebbe commesso un gravissimo peccato. In effetti, egli portandosi presuntamente e volontariamente con sé l’asserito munus, certamente non sarebbe stato coerente con quanto Cristo avrebbe chiesto sempre ai suoi Vicari: cioè di patire e di soffrire con il proprio gregge.

L’esempio del Quo Vadis, evocato da taluno, appare illuminante. S. Pietro, come si sa, era in fuga da Roma, funestata dalla prima persecuzione, quella di Nerone. Per la verità, egli accettò la fuga su sollecitazione della comunità cristiana, che lo invitava a mettersi in salvo. Mentre era per strada, poco fuori le mura di Roma, sulla via Appia, si presentò il Signore, al quale l’Apostolo chiese dove stesse andando (Quo vadis Domine?). Gesù gli rispose che, se lui avesse disertato il suo popolo, sarebbe andato a Roma a farsi crocifiggere di nuovo (Venio Romam iterum crucifigi). Parole, il cui significato era quello di ammonire l’Apostolo per la scelta di darsi alla fuga e di indicargli quale fosse la via corretta da seguire. Pietro comprese il messaggio del Signore, tornò a Roma e accettò il martirio.

Benedetto XVI, quindi, assuntamente auto-impedito e prigioniero in Vaticano, avrebbe dovuto accettare sino in fondo il martirio e di morire, persino, piuttosto che fuggire dinanzi ai lupi (ricordiamo le parole del giorno di elezione di Ratzinger: «pregate perché non fugga dinanzi ai lupi»).

Cosa sarebbe successo?
Beh, se avesse accettato il martirio e quindi la sua suprema testimonianza, avremmo avuto un papa legittimo e pienamente legittimato.
Ma sarebbe salito al trono un Bergoglio, che è ritenuto un eretico?

Beh, questo a Ratzinger non interessava, perché – come detto – il papato non è del papa, che ricopre in un certo momento storico quell’ufficio, ma è di Cristo e Cristo avrebbe provveduto alla sua Chiesa, tenendo fede alla sua promessa «le porte degli inferi non prevarranno». O forse Ratzinger – dobbiamo supporre – non credeva a questa verità? O forse concepiva il papato come un ufficio secolare, non dissimile da quello di un qualsiasi Presidente della Repubblica?

Alcuni autori evocano a questo proposito – e direi giustamente – l’esempio di Enea Silvio Piccolomini, che, benché – non dico – eretico, ma che aveva certe idee non proprio ortodosse (era conciliarista! Ed i suoi libri erano all’Indice), eletto papa, col nome di Pio II, le abiurò formalmente, uscendo con la celebre frase “rifiutate Enea, accogliete Pio”.

Qualcosa di analoga fece anche Paolo VI, ricordando che Montini era morto e che c’era appunto Paolo.

Proprio per la garanzia soprannaturale che assiste l’ufficio papale, se Ratzinger avesse accettato il martirio ed avesse perciò pienamente rinunciato, sarebbe stato eletto un Bergoglio o chiunque altro, che, benché fossero stati grandi peccatori, c’era la garanzia che non avrebbero potuto deflettere dal depositum fidei. Se invece, oggi, Bergoglio deflette, gettando la comunità cattolica in confusione, ciò è da ascrivere alla grave responsabilità di Ratzinger che – stando menzionata chiave interpretativa – si sarebbe trattenuto volontariamente il munus, ritenendosene padrone e concependo erroneamente il papato come un ufficio politico con cui fare giochini di varia natura.

Giovanni Giuffrida

Vitium Consensus? Confusione su confusione

Viviamo certamente in un periodo molto strano, nel quale la confusione pervade ogni aspetto della vita sociale. Ma se coloro che dovrebbero dare punti fermi contribuiscono a disorientare i fedeli, il problema viene sicuramente aggravato. Lo stesso Pontefice attuale, invece di confermarci nella fede e rassicurarci, a volte con le sue dichiarazioni contribuisce ad aumentare la confusione, per esempio attraverso le risposte non chiare ai “dubia” espressi dai cinque cardinali.

A volte, Papa Francesco ha persino esaltato il dubbio e l’inquietudine quale situazione in cui deve vivere il credente durante la sua vita spirituale. A contribuire a tale stato di confusione, si rende protagonista anche Mons. Carlo Maria Viganò, il quale pur rigettando l’ipotesi del giornalista Andrea Cionci divulgata attraverso il suo “best seller” dal titolo inquietante “Il codice Ratzinger”, mette in campo un’altra ipotesi, anch’essa molto discutibile, se non improbabile. Mons. Viganò, in un suo intervento nella conferenza di Pittsburgh datata 1° ottobre 2023, afferma che l’elezione di papa Bergoglio sarebbe affetta da nullità, perché egli eserciterebbe il suo ruolo di Papa in contrasto con quanto il diritto canonico gli attribuirebbe nello specifico. Nel suo intervento, Mons. Viganò afferma che non avrebbe pregio la tesi del consenso unanime a favore di Papa Francesco di tutti gli attuali cardinali, poichè tale argomento sarebbe smentito da un precedente storico avvenuto nel 1378: in quella circostanza, il consenso unanime dei cardinali era a favore dell’antipapa Clemente VII e, tra questi, vi era anche san Vincenzo Ferrieri, mentre il vero papa era Urbano VI. Il prelato a sostegno della sua ipotesi propone due argomenti:
1 – le dichiarazioni del Cardinale Edgar MacCarrick, il quale in un’intervista dell’11 ottobre 2013 presso la “Villanova University” affermava che papa Francesco sarebbe stato voluto dalla “deep church” e da un “very influencer gentiluomo italiano” e che con Bergoglio il papato sarebbe cambiato nel giro di quattro anni.
2 – dal comportamento del papa e nell’attuazione della sua politica ecclesiastica, il Pontefice sarebbe incorso in numerose eresie, che di fatto riuscirebbero ad evidenziare la reale volontà del medesimo di non volere esercitare il suo ruolo di Pontefice in conformità con la dottrina cattolica, secondo il suo contenuto bimillenario e la sua tradizione.
Traendo spunto dall’analogia con il matrimonio, che può essere dichiarato nullo per vizio del consenso, se chi accetta di sposarsi non intenda assumersi i doveri previsti dalle leggi canoniche e dalla dottrina della Chiesa (per esempio la mancata accettazione della volontà procreare), secondo mons. Viganò alcuni comportamenti dell’attuale Pontefice non sarebbero conformi al ruolo che il diritto canonico, le sacre scritture e la tradizione attribuiscono al papa. Per tale ragione, al momento dell’accettazione dell’elezione papale, il consenso sarebbe viziato sin dall’inizio da riserva mentale, desumibile dai “facta concludentia”, ovvero dal comportamento successivo del Papa.
Esaminando il primo punto, secondo mons. Viganò, il piano eversivo di papa Francesco sarebbe stato dettato da una consorteria denominata “Deep Church” in accordo col “Deep State” o oligarchia finanziaria, che avrebbe preso il potere nella Chiesa e nel mondo distruggendo le democrazie.
Il piano della “deep church” prevederebbe: la gestione della chiesa in modo sinodale, l’accettazione dell’immigrazionismo, la sostituzione etnica della popolazione cattolica, l’accettazione della teoria “gender”, le benedizioni delle coppie “LGBT”, la comunione ai divorziati risposati, l’accettazione di un nuovo comandamento sulla difesa dell’ambiente. Ne consegue che la Chiesa attuale dovrebbe condannare quella preconciliare e qualsiasi forma di ricorso alla tradizione.
Per quanto attiene al primo punto le argomentazioni di Viganò appaiono veramente inconsistenti, poiché egli non può considerare una prova le opinioni del cardinale McCarrick quando espone delle previsioni su Papa Francesco che cambierà il papato nel giro di 4 anni.
Oltre all’inconsistenza sul piano del diritto, poiché in ogni caso le dichiarazioni del cardinale McCarrick dovevano essere confermate all’interno di un processo, soprattutto le dichiarazioni del cardinale consistono in previsioni, intuizioni od opinioni.
Così pure il riferimento al “deep church” e all’esistenza del very influencer gentiluomo italiano, che si deve considerare una semplice illazione molto generica e senza il minimo fondamento probatorio.
La dichiarazione di un testimone può diventare prova solo quando questi esponga di fatti che egli abbia visto o sentito in modo diretto. Tali fatti peraltro per considerarsi prove dovrebbero essere confermati in un regolare processo.
2 – Più articolata è la seconda questione riguardante il vizio del consenso di Papa Francesco al momento dell’accettazione del suo incarico papale, il quale dovrebbe essere esercitato in modo conforme alle previsioni del diritto canonico, della Bibbia e della tradizione della Chiesa.
Secondo mons. Viganò, il consenso manifestato da Papa Francesco al momento dell’accettazione dell’incarico sarebbe stato viziato “ab origine”, poiché il Pontefice appena eletto avrebbe taciuto su una sua riserva mentale, che consisteva nel non aver voluto accettare l’incarico papale in modo conforme alle leggi della Chiesa.
Pure tale argomentazione appare poco fondata, poiché la riserva mentale del Papa andrebbe provata soprattutto attraverso la confessione diretta, oppure per mezzo di testimoni diretti o documenti. La seconda prova, che mette in campo Viganò, possiede i connotati di una maggiore consistenza: ovverosia dal comportamento dell’attuale Pontefice, durante il suo governo, emergerebbe una condotta eretica, non conforme ai dettami millenari della Chiesa cattolica, che lascerebbe emergere la sua riserva mentale al momento dell’accettazione.
Sebbene tale possibilità, in diritto canonico appaia astrattamente possibile secondo l’opinione di qualche autore e della giurisprudenza rotale (J.J, Garcia Failde, Simulatio totalis matrimonii canonici et metus, in Periodica, 1983, p. 251), tale dottrina nondimeno sarebbe fortemente criticata poiché rischierebbe di essere arbitraria e, nondimeno, per accertare un fatto occorrerebbe che le presunzioni ex can. 1584-86 fossero sottoposte a severi limiti. Le presunzioni per diventare prove di fatti devono presentare i caratteri di essere: precisa ed urgentes, certa, determinatam e coerenthia, concordantia, evidentia et connexa. In realtà, esaminando le singole argomentazioni riportate da Mons. Viganò, per dimostrare le eresie del Papa attuale, non ci appare che esse abbiamo tali requisiti previsti dal diritto canonico, poichè sono molto generiche, non precise, non concordanti.
L’attuale Papa, nonostante alcune affermazioni e scritti dove ci lascino perplessi sulla sua ortodossia, sembrerebbe che, almeno in via di principio, non abbia voluto cambiare il “depositum fidei”, anche se, nella prassi, in realtà, abbia lasciato dei varchi, prevedendo alcune eccezioni, che potrebbero cambiare la dottrina, trasferendo la responsabilità ai parroci, come nel caso, per es., della esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, allorché permette la comunione ai divorziati risposati, dopo un “discernimento” della situazione da parte del parroco. Un altro permesso concesso da papa Francesco sembra quello riconosciuto alla Conferenza episcopale belga, in base al quale, in caso di raggiunta maggioranza, i vescovi belgi possono benedire le coppie omosessuali, sebbene, ultimamente, per mezzo del cardinale Parolin, Papa Francesco sarebbe tornato sui suoi passi riaffermando la dottrina di sempre in materia di sacerdozio femminile e in materia di omosessualità.
Come è facile notare le contraddizioni delle dichiarazioni del Papa non permettono di raggiungere il requisito della concordanza, precisione, coerentia, necessari per considerare la presunzione una prova idonea per provare la riserva mentale di Papa Bergoglio.
Ma se tale argomento può avere maggior consistenza dal punto di vista logico-giuridico specie sulla nullità del matrimonio, sulla nostra questione occorre tenere conto del can. 1442, che può considerarsi come pietra tombale sul tema: tale canone afferma che il Papa sarebbe giudice supremo e nessuna autorità sarebbe superiore a lui per poterlo giudicare.
Spesso chi non è d’accordo sull’operato di Papa Francesco mette in campo argomentazioni inconsistenti per cercare di trovare soluzioni facili o scorciatoie, al fine di uscire fuori dalla confusione, ma Gesù ci ha insegnato che solo entrando dalla porta stretta arriviamo a Lui.
In considerazione dello scarso fondamento in diritto e in fatto delle argomentazioni di Mons. Viganò, le affermazioni del prelato invece di aiutare ad eliminare i dubbi, aggiungono confusione su confusione tra i fedeli, i quali chiedono stabilità, di essere confermati e rassicurati nella fede. Allo scopo la Provvidenza ci ha lasciato la Sacra scrittura, la Tradizione e tanti santi pastori ancora presenti all’interno della Chiesa.

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LA “WANNA MARCHI” DELLA DOTTRINA DELLA FEDE CONTINUA IL PROGRAMMA

Arduino Facezia

Se Fiducia Supplicans ha procurato l’insorgere di mezzo episcopato mondiale, lo scandalo dell’intero laicato cattolico e il diniego di ortodossi, ebrei e mussulmani, il comunicato stampa odierno, 04/01/2024, pubblicato da Tucho Besame Mucho è a dir poco peggiore. Il meccanismo è sempre il medesimo, affermare la dottrina nel primo capitolo e lasciarla contraddire dalle azioni a libera interpretazione nella prassi.


“Gli irregolari” si sentono offesi nell’intelligenza da costoro, perché è evidente a tutti coloro che hanno un quoziente intellettivo medio e la licenza elementare che stanno propinando qualcosa che è talmente nuova, talmente eterea, talmente libera nel discernimento (leggasi ideologia), talmente slegata dalla liturgia della Chiesa, dalla dottrina del Vangelo, dal luogo di culto e persino da una qualche presenza comunitaria che si chiedono cosa realmente sia e soprattutto a nome di chi lo fanno.

Sono talmente confusi (leggasi confusionari) che avviano una riflessione su una cosa assente nel passato, non solo della Chiesa ma dell’intero genere umano, e basata solo sulla visione pastorale (leggasi opinioni) di Bergoglio. Se si fossero affidati alle brillanti tecniche persuasive di Wanna Marchi avrebbero venduto meglio questo amaro intruglio.

Cosa sono infatti queste nuove benedizioni pastorali? Il comunicato le propone come sviluppo circa la dottrina sulle benedizioni, facendo rientrare queste nell’ambito della pietà popolare. Basta! Non cita alcuna fonte. Elenca però le caratteristiche, le più per via negationis: non ritualizzate, non giustificanti, non matrimoniali, non approvanti, non ratificanti, non assolventi, non consacranti, non congratulanti. Esse devono essere una semplice e breve risposta del pastore alla richiesta, definite: ESPRESSIONI DI VICINANZA PASTORALE.

Legittimo chiedersi: ma espressioni di vicinanza da parte di chi? Di Gesù Cristo o delle persone dei preti? Perché il primo già ci è accanto benissimo da 2000 anni, felicemente regnante nella sua Chiesa nei modi che conosciamo e che Lui ha scelto; i secondi invece sono ultimamente molto confusi, e diversi persino maliziosi: non a caso Tucho sottolinea “ministri più liberi, vicini, fecondi […] senza paura di essere fraintesi” (cit.).

Finalmente l’apice della perorazione argentina arriva in grassetto. Viene offerto un caso di scuola per questa benedizione: “Il sacerdote può recitare una semplice orazione […] E conclude con il segno della croce su ciascuno dei due” (cit.)

Recita di parole e gesti dunque: praticamente un esempio classico di rito. Certamente l’assenza del’ “Adjutorium nostrum in nomine Domine” lo rende poco tradizionale, ma non meno ‘rituale’.

È lampante! si tratta dell’ennesimo capolavoro di menzogna che solamente Tucho Besame Mucho e company potevano stillare: raccomandare l’assenza di ritualità offrendo l’esempio di un rito. Dobbiamo rammentare a Sua Eminenza come il principio di non contraddizione però oltre che essere un caposaldo della logica aristotelica è un indicatore di sanità mentale, per cui chi non lo persegue o è pazzo o è falso.

Ma seriamente, chi ha inventato questa sottospecie di stregoneria? Sembra la formula del malocchio: la maga del mio paese in confronto ha una tradizione alle spalle che le garantisce più credibilità di questi imbroglioni di basso rango.

E non sfugga la violenza mafiosa del “liberamente costretti” con cui si rammenta continuamente, a quei pastori che hanno reagito giustamente in coscienza all’abominio liberalizzato, la necessità di questo cammino (il che ci dice che dobbiamo aspettarci altre manovre). La necessità di ciò ben misura il grado di nervosismo che ha procurato all’animo misericordioso e sinodale degli argentini il NO deciso delle periferie. Suona quasi come un ultimatum per chi non intende allinearsi al “nuovo” che deve avanzare.

Ma cari miei le periferie vi hanno fatto tana!!!

Mario Mascia

L’essenza dell’ordine in rapporto con la giustizia

Un connotato della realtà espresso nella sua essenza si riscontra nella funzione dell’ordine. Gli studi delle dottrine umanistiche e scientifiche denotano concetti distinti dell’ordine. Il concetto dell’ordine assume una centralità nel pensiero di San Tommaso fino ad essere citato maestro dell’ordine interiore, la sua è definita filosofia dell’universo. San Tommaso è stato definito il genio dell’ordine e maestro dell’ordine interiore e la sua filosofia è considerata una filosofia dell’universo in quanto esprime una filosofia dell’ordine.

Il termine universo richiama un ordine reale sia nella totalità che nell’unità. L’ordine scaturisce dal concetto di relazione tra le parte riunite in una composizione sistemica per perseguire un determinato fine.
Jérôme Lalande, astronomo francese, enuncia il concetto di ordine: “una delle idee fondamentali della nostra intelligenza comprende nel senso più generale le determinazioni temporali, spaziali, numeriche: le serie, le corrispondenze, le leggi, le cause, i fini, i generi e le specie; l’organizzazione sociale, le norme morali, giuridiche, estetiche, ecc”.
Le parti componenti disposte secondo un ordine preciso sono in relazione tra loro. Il presupposto secondo cui è concepito l’ordine è il principio sia in senso temporale che spaziale. L’ordine temporale riguarda la sequenza degli eventi, l’ordine in senso spaziale riguarda la contiguità dei corpi. La contiguità degli elementi partecipanti al sistema dei corpi viventi per la loro funzionalità sono disposti in una relazione di interdipendenza al di fuori della quale non possono essere concepiti autonomamente tali da perdere la propria funzione. La relazione risulta il cardine del corpo perché sia concepito come sistema sinergico così da esaltare il valore in termini di efficienza, presupposto per perseguire il fine del concepimento.
L’ordine assume il senso predeterminato del collegamento tra i componenti del sistema dinamico rivolto al fine ad esso attribuito. Quale attinenza può riguardare l’assunto dell’ordine nella vita umana se non quella di essere già predeterminato nell’ambito della natura, delle relazioni sociali in cui le norme garantiscono funzionalità ed efficienza. La causa determinante le norme assume un valore fondamentale perché la vita umana sia esprimibile in modo autentico. La causa agente assume quindi un ruolo rilevante nel concepimento dell’ordine per la disposizione degli elementi di un sistema vitale, finché gli effetti derivanti determinino il fine predisposto da principio.
Si tratta inoltre che sia acquisita la consapevolezza che il fine sia allineato all’ordine. La certezza è spiegabile in senso assoluto e relativo. L’intrusione delle variabili nel tempo e nello spazio possono pregiudicare l’ordine dell’equilibrio di un sistema. Il sistema osservato sul piano politico, sociale ed economico di una nazione può mettere in luce un sovvertimento degli equilibri economici e politici di un secolo. La storia mostra i limiti dell’ordine relativo, in quanto non può essere inteso se non in senso univoco che l’umanità non potrà mai concepire autonomamente. Resta l’interrogativo quanto l’ordine della convivenza umana riveste un valore etico nella vita sociale, economica e politica. La risposta rivela una attinenza imprescindibile col principio della giustizia.
L’ordine a cui l’uomo impone un valore fondamentale nella convivenza sociale richiama un principio ideale riconosciuto universalmente. La giustizia presuppone l’ordine nelle relazioni umane in base al riconoscimento dei comportamenti di uno o più individui legati da una attività regolamentata dalla legge. L’attuazione della giustizia richiede delle norme che determinano gli atti vietati in una comunità umana.
Oltre l’aspetto giuridico la giustizia assume un significato naturale che rende doveroso per ogni individuo l’osservanza verso i propri simili dei criteri di giudizio e comportamento conformi al senso di onestà e di correttezza verso il prossimo, in tal senso la giustizia assume un valore etico e non semplicemente normativo. Nel pensiero filosofico il concetto di giustizia ha assunto un significato fondamentale non solo nella vita umana ma soprattutto nella realtà naturale evidenziando la necessità di conservare ogni cosa nel proprio ordine affinché la giustizia possa esprimere un principio naturale di coordinazione e di armonia nei rapporti umani.
La visione di giustizia in Platone è l’armonia tra le facoltà dell’anima e tra le classi dei cittadini in quanto è assegnata ad ogni classe sociale quello che spetta ad ognuno per attuare il proprio compito. Il concetto di giustizia viene evidenziato sul piano dell’uguaglianza da Aristotele in quanto la giustizia include l’essenza della virtù poiché deve rappresentare il mezzo tra un difetto e un eccesso. Il contributo offerto da Platone e Aristotele merita un ulteriore approfondimento sul piano morale per giungere ad una visione autentica. Nelle visione cristiana la giustizia è in relazione con la realtà divina. La giustizia non si riscontra nella natura ma nella volontà di Dio secondo S. Agostino. Sapere quello che è giusto non è necessario per agire con giustizia, pertanto è necessaria la libera partecipazione e il supporto della grazia divina e a tal punto la giustizia si presenta come virtù morale personale.
San Tommaso pone un fondamento importante sulla giustizia definita come la ragione di Dio che governa il mondo. Se la volontà non deriva dalla ragione è solo arbitrio, mentre la legge non può sempre garantire la giustizia. L’uomo in rapporto con Dio non può essere veramente giusto, perché non è in grado di corrispondere quanto è dovuto; inoltre per San Tommaso la religione è la virtù che si unisce alla giustizia. In definitiva il principio della giustizia, da cui deriva l’ordine, non corrisponde ad un principio umano in considerazione dei limiti dell’essere ma è un’esclusiva divina.

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Gabriele Cianfrani:

QUANDO IL FARE PRENDE IL POSTO DELL’ESSERE: una inquadratura teologica

Poco tempo fa, proprio in occasione della cosiddetta festa di Halloween, qualcuno si è premurato di dire che è giusto accogliere tale festa così com’è, anziché continuare con le solite crociate di stampo medievale, che allontanano le persone dalla Chiesa piuttosto che avvicinarle.

Verrebbe da chiedersi per quale motivo il Medioevo debba essere ogni volta criminalizzato e per quale motivo si faccia riferimento alle crociate quasi sempre in maniera spropositata. Ora, questo è un modo per dire che nel mondo odierno troppo spesso si conclude in tal modo: «se le cose stanno così, è giusto che restino così». Infatti, quante volte anche in ambito liturgico si sente dire: «noi facciamo così»; «da noi si usa fare così» ecc., riducendo tutto ad una sorta prassi senza fondamento. Quante volte si sente dire che san Paolo VI si è appellato ai testimoni anziché ai maestri, dal momento che abbiamo più bisogno di testimoni che di maestri? Ciò non è sbagliato, ma il problema sorge nel momento in cui, soprattutto oggi, si preferisce la famosa posizione di matrice protestante out-out (o questo o quello, ossia una posizione di esclusione) anziché la cattolica posizione dell’et-et (e questo e quello, sia questo sia quello, ossia una posizione di inclusione, sempre con la dovuta valutazione). Cosa vuol dire? Vuol dire che nel contesto odierno, anche sul piano teologico, si rischia di sfociare nella posizione dell’out-out, del tipo: o la parte speculativa o la parte pratica, come se ciò che riguarda la speculazione fosse arido, freddo, distaccato dal mondo reale.
Non finisca qua, dacché spesse volte si propende per una sorta di inclusione ‘assoluta’ (assoluto viene da absolutus, ossia «sciolto da tutto», «senza legami»), che corrisponde all’eccesso opposto, col risultato di gettare tutto nello stesso calderone per ottenere una bella zuppa «anonima». Non a caso, oggi, si parla così tanto di «pastorale» da non riuscire nemmeno ad esprimere cosa d’intenda precisamente con tale parola, tanto da risultare «anonima»: una pastorale anonima.
In realtà i due aspetti brevemente accennati (esclusione netta e/o inclusione assoluta) sarebbero le due facce della stessa moneta, perciò il problema risiede, in ultimo, nella moneta stessa. Vediamo di chiarire.
Ciò su cui si insiste molto, soprattutto nel contesto odierno, è la ricerca della pace. Pertanto, occorre impegnarsi per far sì che si raggiunga quella pace tanto desiderata, favorendo il dialogo (assoluto?) e cercando di trovare «accordi». Non importano le chiacchiere e tutti quei discorsi speculativi così distanti dalla realtà, quel che importa è trovare la pace e stare bene con tutti. Obiezione: è giusto impegnarsi per la pace, ma di quale pace si tratta? Semmai si trattasse di una pace raggiunta per mezzo di «accordi», questi sarebbero sempre terreni e destinati a disgregarsi, prima o poi. Alla fine ci ritroveremmo come prima. Ci ritroveremmo in una sorta di pace esclusivamente orizzontale, fondata esclusivamente sull’uomo, sradicata da Colui che è venuto per donarci la Sua pace. A questo punto la pace per la quale ci si impegna non sarebbe altro che una pace «assoluta», sciolta da tutto, anche da Dio: la falsa pace! Certo, dal momento che l’impegno nei confronti della inclusione assoluta comporta, paradossalmente, l’esclusione netta: dall’inclusione assoluta scaturisce quella realtà unica (pensiero unico?) che riconosce solo se stessa e nulla all’infuori di essa. Il primo ad essere escluso è il Signore. Attenzione, la «pace» e il «dialogo» sono di grande importanza, ma la tendenza odierna di assolutizzazione comporta lo svincolamento altrettanto assoluto, prima di tutto nei confronti di Dio. Ed ecco che, come denunciava Ratzinger, oggi si tende a parlare di tutto tranne che di «conversione». Per quale motivo? Semplice, perché la conversione consta di due piani: la conversione interna (μετάνοια), alla quale segue quella esterna (ἐπιστροφή) come manifestazione della prima. Non è possibile separare i due piani, pena la non conversione.
Ora, dal momento che la conversione esterna si pone sul piano del fare, mentre quella interna sul piano dell’essere – occorre che vi sia conversione per poter agire di conseguenza –, e quella interna avviene per l’aiuto della grazia divina, che suppone la natura umana, ne consegue che i due piani devono esserci entrambi e occorre mantenerli uniti, ma al contempo distinti. Non è possibile propendere per l’esclusione netta né per l’inclusione assoluta. Ciò dovrebbe risultare chiaro per un pastore d’anime, dal momento che sono dinamiche insite nel sacramento della Riconciliazione. Ma dal momento che vi è anche lo smarrimento dei sacramenti, viene da chiedersi che tipo di «pastorale» sia quella di oggi…
Ed ecco che oggi si perseguono obiettivi quasi ed esclusivamente sul piano orizzontale del puro fare – si constata spesso l’ossessione del fare esteriore anche nella liturgia, senza contare le grandi feste come il Natale e la Pasqua, ridotte quasi del tutto a quel puro fare consumistico –, perdendo di vista il piano verticale dell’essere. Il risultato? L’anonimato «assoluto».
E cosa sarebbe tutto ciò se non la perdita della ricerca del volto di Dio (De te dixit cor meum: “Exquirite faciem meam!”. Faciem tuam, Domine, exquiram, Sal 27,8)? Quale segno vi è, migliore di quello della Croce, per ripristinare i due piani sopra riportati?
Pertanto, l’assenza della parola «conversione» è il segno distintivo di un Cristianesimo del puro fare, della pura pratica, con l’esclusione dell’essere e della speculazione. Obiezione: semmai si escludesse la speculazione, come si potrebbe rispondere all’invito di Dio di ricercare/scoprire/investigare il Suo volto?

Santo Natale.

Gabriele Cianfrani

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Augustinus Hipponensis

I vescovi e gli altri. Siamo di fronte a dichiarazioni formali di scisma?
Prime reazioni alla Dichiarazione “Fiducia Supplicans” sulla benedizione aliturgica delle coppie irregolari

Con la pubblicazione della Dichiarazione Fiducia Supplicans del 18.12.2023, che abbiamo commentato ieri (il nostro commento, ripreso da Il Pensiero cattolico, è stato, a sua volta, rilanciato anche dal blog Stilum Curiae del giornalista M. Tosatti), non si sono fatte attendere delle chiare prese di posizione da parte di singoli vescovi o conferenze episcopali (per una rassegna generale, cfr. L. Coppen, ‘Fiducia supplicans’: Who’s saying what?, in The Pillar, 19.12.2023; in traduzione italiana, Dichiarazione «Fiducia supplicans» sul senso pastorale delle benedizioni: chi dice cosa?, in blog Messa in latino, 20.12.2023.

Per un’analisi generale del documento, cfr. E. A. Allen, Vatican’s doctrinal czar parses details for enabling same-sex blessings, in Catholic Herald, 18.12.2023; Vatican appears to endorse couples in ‘irregular situations’ receiving blessings that do not ‘validate their status’, ivi. Per un esame canonistico della dichiarazione, cfr. L. Knuffke, Prominent canon lawyer Fr. Murray excoriates new Vatican doc endorsing ‘blessings’ of gay couples, in Lifesitenews, 20.12.2023).

Certo, formalmente, la dottrina non sembra sia stata intaccata. Ciò che sarebbe cambiato, con questo documento, è la prassi pastorale. Fiducia Supplicans insiste con decisione sulla distinzione tra dare una benedizione a una coppia omosessuale e benedire la loro relazione. Certo, chiunque può chiedere una benedizione a un sacerdote; questo non è mai stato in discussione. Quando, però, due persone chiederanno ad un sacerdote di impartire loro una benedizione come coppia, come potrà la Chiesa evitare l’impressione che il sacerdote, in quanto rappresentante della fede cattolica, benedica la loro unione? Senza contare che la benedizione in parola debba essere impartita senza «degli abiti, gesti o parole propri di un matrimonio» (n. 39). La benedizione dovrebbe essere spontanea e non impartita nella forma rituale propria della preghiera liturgica. Ma sicuramente le coppie che si avvicineranno – ammesso che ce ne saranno – a richiedere la benedizione, senz’altro vorranno, in un certo qual modo, solennizzare quel momento – evidentemente importante per loro – con la partecipazione di amici, parenti, e magari anche con in sottofondo la marcia nuziale di Mendelssohn. La Dichiarazione rimette ai pastori la libertà di decidere come rispondere alle richieste delle coppie. Li avverte, nondimeno, di non fare affidamento sugli “schemi dottrinali o disciplinari” («La Chiesa, inoltre, deve rifuggire dall’appoggiare la sua prassi pastorale alla fissità di alcuni schemi dottrinali o disciplinari […]»: n. 25). Insomma, una sorta di invito ad eludere la dottrina, per evitare qualsiasi spiacevolezza che possa sorgere dalla condanna da parte della Chiesa di atti non conformi alla legge divina. Il Dicastero per la Dottrina della Fede, c’è da pensare, permette (incoraggia?), in questo modo, il clero a mantenere una sorta di purezza rituale, affermando che non ha trattato l’unione omosessuale come un matrimonio, mentre agli occhi del mondo ha fatto esattamente questo (così P. Lawler, Vatican’s homosexual ‘blessings’ document invites priests to fudge both doctrine and practice, ivi, 19.12.2023). Continua la lettura su Scuola Ecclesia Mater

Avv. Francesco Patruno

Bergoglio approva la benedizione delle coppie irregolari.
Un documento ambiguo con profili di eterodossia? Un primo commento.

Era il 15 marzo 2021 allorché l’allora Congregazione per la dottrina della Fede, pubblicava un proprio Responsum, risalente al 22.2.2021, nel quale rispondeva al dubbio se la Chiesa disponesse del potere di impartire la benedizione alle unioni di persone dello stesso sesso. La risposta che era data era negativa.

Il Dicastero vaticano, all’epoca presieduto dal card. Luis F. Ladaria, argomentava, nell’allegata Nota esplicativa, che, essendo le benedizioni dei sacramentali (e non dei sacramenti!) richiedono, per coerenza, che, oltre alla retta intenzione di coloro che ne partecipano, «ciò che viene benedetto sia oggettivamente e positivamente ordinato a ricevere e ad esprimere la grazia, in funzione dei disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore. Sono quindi compatibili con l’essenza della benedizione impartita dalla Chiesa solo quelle realtà che sono di per sé ordinate a servire quei disegni». Per questo, si affermava che non è «lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso. La presenza in tali relazioni di elementi positivi, che in sé sono pur da apprezzare e valorizzare, non è comunque in grado di coonestarle e renderle quindi legittimamente oggetto di una benedizione ecclesiale,…. Continua la lettura su Scuola Ecclesia Mater

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Nicola Barile

University of California, Berkeley

Recensione de «La tiara e la loggia» di Gaetano Masciullo

Può un cattolico aderire alla Massoneria? La risposta è ovviamente no, dopo le ripetute condanne della Chiesa: eppure, a suo tempo, la stessa Congregazione per la dottrina della fede, guidata dal cardinale Franjo Šeper (1968-1981), sembrò ammettere questa possibilità (19 luglio 1974), in nome dei tempi che erano cambiati, salvo smentire successivamente questa apertura (1981).

Una storia ancora tutta da approfondire, di cui tuttavia il lettore non troverà traccia nel recente, bel libro di Gaetano Masciullo, La tiara e la loggia. La lotta della Massoneria contro la Chiesa, Fede & cultura, Verona 2023: niente affatto, come si potrebbe dedurre a prima vista dalla lettura del titolo del volume o da una sua veloce scorsa, l’ennesima monografia sui rapporti fra Chiesa e Massoneria che pure, come nel caso della sorprendente apertura del cardinale Šeper, non manca affatto di riservare sorprese e colpi di scena, quanto uno studio condotto appassionatamente per «svelare la macchina cospirativa che è stata ordita nei secoli contro la Chiesa cattolica e che procede ancora oggi», di cui «la Massoneria è stato solo un mezzo per condurre una guerra che è ben più vecchia di quella iniziata nel 1717, l’anno ufficiale di nascita della prima loggia massonica».
Infatti, la fondazione della prima loggia massonica, avvenuta appunto il 24 giugno 1717 in una birreria di Londra ad opera di alcuni misteriosi individui non è avvenuta così, per puro caso ma, al contrario, è stata preceduta da vari e numerosi eventi, niente affatto «mere curiosità storiche», quanto piuttosto «utili indizi» che aiutano a situare nel tempo quell’evento, apparentemente insignificante ma, in realtà, foriero dell’abbraccio mortale che la Massoneria avrebbe riservato alle società di antico regime, oltre che a quelle contemporanee.
La tiara e la loggia documenta con dovizia di date e personaggi come le corporazioni muratorie francesi, inglesi e scozzesi divennero ben presto ricettacoli e scuole di quelle correnti dottrinali e teologiche (gnosi, cabalismo, catarismo ecc.) che si agitavano in modo sotterraneo nell’Europa cattolica, i cui esponenti iniziarono a frequentare, convincendo i primi liberi muratori della bontà delle proprie dottrine erronee e diffondendo contemporaneamente l’odio per la Chiesa cattolica. Con il passare del tempo, anche gli aristocratici furono attratti dagli insegnamenti che venivano impartiti da queste logge di franc-maçons, sicché esse divennero non più ritrovi di architetti e muratori protetti e finanziati da abati e cavalieri, com’era stato fino al medioevo, ma luoghi di incontro fra intellettuali, capaci di costruire sofisticate ma perigliose cattedrali del pensiero, e nuovi patroni e finanziatori, fortemente interessati a capovolgere il dominio cattolico in Europa e nel mondo. Può ben dirsi così che il mondo e la società moderni non sono altro che il frutto di un’iniziazione inconscia da parte delle società segrete, in primis della Massoneria, in funzione anti-cattolica, in cui le libertà individuali, così ben rappresentate dai comuni medievali, hanno ceduto via via il passo alla cura dei bisogni della collettività tipica dello stato moderno.
Lo stato moderno, non più (o meglio, non solo) personificato dal re, divenne caratterizzato, oltre che dalla cura della sicurezza, anche dalla spersonalizzazione del potere, presentandosi come autorità morale, che pretende di auto-fondarsi eticamente, anzi, di essere esso stesso la fonte della morale del popolo che governa; da queste sue caratteristiche, ne seguirono a loro volta altre, che ormai si possono ritrovare oggi in quasi ogni stato, come la gerarchia burocratica, la tendenza all’impero e quella tecnocratica, da cui discendono, a loro volta, la tendenza alla guerra e il controllo della cultura, per finire con l’egualitarismo, l’ingerenza economica e l’uso generalizzato della coercizione.
Non mi è possibile riassumere i duemila anni di storia considerati da La tiara e la loggia, che spazia praticamente dalla nascita delle chiese gnostiche nei primi secoli del cristianesimo a quel «secolo breve» che è stato il Novecento, passando per movimenti come quelli dell’illuminismo francese e del risorgimento italiano di due secoli (il XVIII e il XIX) considerati del «trionfo massonico», ma che riserva anche delle pagine sulla più stretta attualità, come quelle della guerra in Ucraina, ma mi sia consentito richiamare la lezione di Vittorio Messori che anima le sue pagine, quando invitava a «pensare la storia in una prospettiva “cattolica”, nella consapevolezza, data dalla fede, di un enigmatico Piano, di una Provvidenza che tanto nascostamente quanto fermamente guida l’avventura di ogni singolo uomo e dell’umanità».
Alla stessa stregua, il libro di Gaetano Masciullo si occupa di quelle cause invisibili della storia, tra le quali vi è certamente Dio, senza dimenticare che ci sono anche quelle visibili, appartenenti a questo mondo, che remano contro la volontà di Dio: tra queste, la Massoneria, appunto, e tutte quelle società segrete nate nella modernità per realizzare il progetto di un ordine del mondo «nuovo», rispetto a quello «vecchio» del cattolicesimo medievale. Si tratta di un sogno risalente almeno al mondo pagano, quando cioè il poeta latino Virgilio (70-19 a. C.) cantò in un’egloga famosa l’avvento di un nuovo ordine dell’umanità che, nel medioevo, fu identificato con la nascita stessa di Cristo.
Cosa rimane di questo sogno? Non molto, secondo Gaetano Masciullo, in quanto, benché sempre molto attive, «le logge non sono più fiorenti come un tempo (…).
Un ente perde la propria funzione quando è sconfitto da un ente con una funzione opposta, oppure quando raggiunge il proprio fine». Non per questo, però, i pericoli per la Chiesa e per l’uomo sono diminuiti, anzi, per certi versi, si sono fatti più insidiosi perché «Oggi la spada della lotta è stata affidata ad altre entità – per esempio agli stessi uomini di Chiesa che propugnano la teologia modernista – ma noi abbiamo il compito di conoscere la nostra storia, senza le lenti dell’ideologia, e proseguire nella battaglia, la buona battaglia della Fede».

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Un evento da ricordare: L'elezione del papa Martino V Colonna

L’11 novembre 1417 il Conclave, straordinariamente convocato durante il Concilio di Costanza, esaltava al sommo pontificato l’allora cardinale (laico) Oddone Colonna col nome di papa Martino V.

Oddone Colonna, in realtà, benché fosse stato creato cardinale dal papa Innocenzo VII, cui succedette il papa Gregorio XII (al cui conclave, nel 1406, lo stesso Oddone aveva partecipato), non riconosceva alcuna legittimità al papa Correr (che egli stesso aveva votato!), ritenendolo quindi un antipapa, un illegittimo. Al contrario, riteneva quale legittimo pontefice l’antipapa Giovanni XXIII Cossa eletto durante il concilio di Pisa nel 1410. Perché vale la pena ricordarsi di questo papa del XV sec.? Perché egli fu eletto da un conclave sostanzialmente “irregolare”, in quanto sedevano cardinali sia di nomina papale (e quindi legittimi) sia anche pseudo-cardinali, cioè porporati nominati dai due antipapi. Eppure, benché in questo conclave sedessero cardinali legittimi e pseudo-cardinali, da quest’assise fu espressa l’elezione di un papa legittimo. Ad essere precisi, su 23 partecipanti al conclave, i cardinali legittimi erano soltanto 9; gli altri erano tutti di nomina antipapale e quindi pseudo-cardinali. Questi ultimi, è vero, furono confermati e legittimati dal papa Martino V una volta eletto. In particolare, il 26 giugno 1418, papa Martino ricevette la sottomissione dei cardinali nominati dall’antipapa (un vero antipapa) Benedetto XIII. A febbraio 1419, poi, ricevette la sottomissione di Baldassarre Cossa (l’antipapa Giovanni XXIII). Ma, attenzione, si tratta di sottomissioni e conferme ex post, non ex ante l’elezione. Questo dovrebbe dirci molto sull’attuale frangente storico ed a non preoccuparci più di tanto se nel prossimo conclave dovessero sedere cardinali di nomina benedettiana e cardinali di nomina bergogliana, ritenuti – secondo una certa visione – come illegittimi. Alla fine, gli uni e gli altri esprimeranno sempre un papa legittimo. Ecco perché la petizione proposta da alcuni e che sta riscuotendo un certo consenso sui social è del tutto risibile, perché essa si fonda su una prospettiva, non di fede, ma guardando alla Chiesa come fosse un parlamento secolare e dimenticando la Provvidenza di Dio, che non può lasciar sola la SUA Sposa.

Augustinus Hipponensis

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