Don Enrico Finotti
Basi teologiche per la “Riforma della riforma”
La vigente riforma liturgica decretata dal Concilio Varicano II è un fatto teologico, che deve essere accolto per camminare in comunione con la Chiesa Cattolica. Se non si parte da questo dato storico e concreto ci si espone al rischio di voler fondare una ‘chiesa’ alternativa basata su concetti e scelte del tutto soggettivi, affidandosi alla leadersip di persone private che sfidano l’autorità costituita.
E allora necessario tener presente il motto: Quod Ecclesia fecit, potuit [Ciò che la Chiesa ha fatto lo poteva fare]. Ciò vale soprattutto in materia dogmatica e sacramentale. Infatti la dottrina della fede e le fonti della Grazia devono avere la massima garanzia di validità per l’essere stesso della Chiesa: senza integrità dogmatica e validità sacramentale la Chiesa collasserebbe e verrebbe meno il dogma della sia indefettibilità e della sua infallibilità in docendo et in sanctificando.
Occorre altresì ribadire un altro motto: De lege condenda et de lege condita [Riguardo alla legge in formazione (in fieri) e riguardo alla legge promulgata]. Bisogna distinguere tra lo stato di vuoto legislativo (de lege condenda) dei tempi in cui la Chiesa intraprendeva la riforma liturgica e permetteva una certa libertà di opinioni e di attuazioni, e lo stato in cui la legge liturgica è stata promulgata dalla legittima autorità (de lege condita). Da questo secondo momento si è tenuti ad osservare la legge liturgica applicandola integralmente secondo i libri liturgici definiti e promulgati. Ciò significa che nel momento attuale è necessario celebrare la liturgia nella rigorosa fedeltà alla forma oggettiva dei suoi riti. Di conseguenza ogni creatività soggettiva ed ogni divaricazione dai riti stabiliti deve essere rimossa e gli abusi vengano così individuati, condannati ed esclusi dal novero degli atti liturgici ufficiali della Chiesa.
Non viene meno comunque il giusto senso critico che tiene aperta la valutazione delle riforme liturgiche con le possibili perplessità e gli eventuali emendamenti da proporre all’autorità ecclesiastica competente. Infatti la Chiesa è semper reformanda nel suo itinerario verso la pienezza del Regno di Dio, e quindi anche la sua liturgia lo è nelle parti suscettibili di cambiamento (SC). In questo contesto sarà possibile la ricerca e il tendere sempre al meglio pur nella fedeltà alle leggi stabilite e nella sottomissione all’autorità della Chiesa.
E’ necessario premettere che le scelte liturgiche più impattanti sono state fatte fin dal primo giorno in cui venne celebrato il Novus Ordo Missae. Infatti il 7 marzo 1965 fu rimosso il tabernacolo dall’altar maggiore; l’altare, ridotto a semplice mensa, fu rivolto al popolo; e la comunione venne amministrata in piedi e camminando. Ciò significa che furono interessati simultaneamente i tre aspetti essenziali del dogma eucaristico: la Presenza reale (rimozione del tabernacolo centrale), il carattere sacrificale della Messa (mensa verso il popolo), la sacralità della comunione eucaristica (rimozione della balaustra). Queste tre scelte rituali sono decisamente le più incidenti nella percezione del popolo e quelle che saranno destinate a rendere permanente la differenza rituale tra il vetus e il novus Ordo Missae. Tuttavia tali indicazioni furono facoltative e non tassative per cui resta la libertà del sacerdote a farne uso o meno. Per questo è ancora aperta la possibilità di ricorrere a questa opzionalità soprattutto nelle chiese storiche dove l’altare maggiore, il tabernacolo monumentale e la preziosa balaustra restano testimoni della tradizione liturgica precedente.
Un primo passo possibile è attuare ciò che già la legge liturgica consente senza necessità di ulteriori e specifici decreti giuridici o particolari indulti. Si tratta del ritorno all’altare storico (altar maggiore) per la liturgia sacrificale; del ritorno all’uso del tabernacolo monumentale sul medesimo altare e del ritorno della balaustra per amministrare la santa Comunione. Questi tre elementi sono già consentiti dalla liturgia vigente e sarebbero in grado di risanare i tre aspetti essenziali del dogma eucaristico: mediante l’uso del tabernacolo storico e centrale si ribadisce con forza la reale Presenza; mediante l’uso dell’altare storico col suo orientamento ad Crucem si attesta visivamente il carattere sacrificale dell’Eucarestia (infatti l’altare monumentale latino è pensato da sempre come icona del Calvario al quale si sale per offrire il Sacrificio incruento); mediante l’uso della balaustra si amministra la Santa Comunione in bocca e in ginocchio ed è in tal modo assicurata la dignità del Sacramento e la devozione dei comunicandi.
Ci si interroga sul fatto che tali scelte non siano facilmente realizzate e ancor meno conosciute. Si risponde che queste non sono eliminate de lege (che anzi de lege sono consentite), ma sono impedite dall’ideologia. Tale ideologia ha intaccato vescovi e presbiteri che ostacolano de facto coloro che intendessero fare queste scelte, ma è pure penetrata ormai nel popolo che, educato in tal senso da decenni, resiste a tutti coloro che intendesse riproporre tale equilibrio.
E’ evidente che:
– fin tanto che il SS. Sacramento si trova in una ‘riserva’ emarginata, laterale e alquanto mediocre, mentre il tabernacolo monumentale rimane permanentemente vuoto, non si potrà pretendere che venga assicurato il nobile culto di latria che la Chiesa riserva al divin Sacramento dell’altare;
– fin tanto che la parte sacrificale della Messa viene celebrata su una semplice mensa priva delle caratteristiche proprie dell’altare/ara priva di ascendenza e rivolta permanentemente versus populum, non si potrà pretendere che il popolo di Dio e gli stessi sacerdoti percepiscano la Messa come attuazione sacramentale del Sacrificio cruento del Calvario, bensì tutti saranno indotti a ridurre la Messa ad un rito di comunione, quasi che essa sia soltanto il banchetto sacro del cenacolo senza alcuna valenza sacrificale;
– fin tanto che la santa Comunione viene amministrata in mano e in piedi ed eventualmente fosse distribuita in qualsiasi luogo della chiesa senza riguardo alla dignità di tale luogo, non si potrà attendersi né che i sacerdoti mantengano la nobiltà del gesto sacro nella consegna del Sacramento, né che i fedeli lo possano ricevere con adorabile circospezione e devozione interiore.
Questo recupero di equilibrio porterebbe da un lato a celebrare il mistero della fede nell’integrità del dogma eucaristico sotto i suoi aspetti indissolubili (Presenza Sacrificio e Convivio), dall’altro ad evitare per il futuro danni irreparabili al patrimonio artistico delle nostre chiese storiche con adeguamenti inconsulti e forzati.
La liturgia in tutte le epoche e in tutti i Riti approvati dalla Chiesa è sempre stata intesa come un protocollo sacro rigoroso e mai come un canovaccio libero lascito all’inventiva del sacerdote. Ciò significa che i riti sono sempre stati determinati anche nei particolari da rubriche precise in modo da escludere ogni equivocità e consentire deleteri soggettivismi. Il fatto si comprende alla luce dell’identità stessa della liturgia che riflette i gesti e le parole del Signore che sono le fonti della grazia. Tali gesti e parole non possono essere lasciate all’interpretazione precaria e talvolta eversiva del sacerdote, ma devono ricevere la massima garanzia di una trasmissione integra sia per l’onore dovuto al culto verso Dio, sia per l’efficacia soprannaturale della santificazione delle anime. Infatti un culto corrotto o mediocre, né onora Dio, né santifica il popolo.
La scelta ‘pastorale’ della vigente riforma liturgica ha intrapreso una modalità diversa (prima sconosciuta) per impostare i riti sacri: il modello del canovaccio nel senso di una legge/quadro che si limita ad indicazioni di massima con larghe possibilità di adattamento lasciate al sacerdote e agli operatori in genere nell’azione liturgica. In conseguenza il sacerdote stesso ha facoltà di intervenire con monizioni libere in molteplici passaggi del rito fino al punto da diluirlo in un cumolo di chiose soggettive e talvolta inopportune (sermonite); inoltre i riti stessi, definiti nell’Editio typica vaticana, sono consegnati alle varie Conferenze episcopali munite della facoltà di poterli rielaborare in loco col rischio di possibili danni alla qualità teologica e alla continuità con la secolare tradizione, oltre che in conflitto con l’unità liturgica del rito romano.
Con questa scelta il novus ordo Missae e l’insieme di tutti i riti liturgici romani riformati sono diventati precari e rischiano l’implosione interna: gli stessi fautori della riforma liturgica a questo punto non la possono più controllare a causa di quei medesimi principi ispiratori che essi stessi hanno difeso e che ora sfuggono alla loro gestione. Non possiamo lamentare ogni genere di abuso finché la liturgia sarà afflitta da criterio libero del canovaccio, che rende impossibile esigere una determinazione e pronunziare un giudizio oggettivo con conseguente sanzione.
Si tratterà allora, da un lato di evitare di applicare tutte le eccessive possibilità di creatività offerte dal vigente rito celebrando invece con rigore e fedeltà secondo il preciso dettato delle rubriche; dall’altro di auspicare un cospicuo emendamento in ordine al ritorno di un protocollo liturgico sacro più determinato, che non dia campo libero all’insidia della creatività e all’estro soggettivo e sentimentale del sacerdote e degli altri operatori liturgici.
Si osservi in proposito come quella libertà celebrativa che viene invocata per la liturgia non la si esige per l’esecuzione di uno spartito musicale, né per un protocollo sanitario, né per una operazione economica, né per un atto giudiziario o nell’elaborazione di un testamento, per i quali si pretende un’osservanza rigorosa e una esecuzione formale meticolosa e passibile di sanzioni. Se ciò vale per le effimere questioni umane, perché per ciò che attiene il culto divino e nelle fonti stesse della salvezza soprannaturale ed eterna dovrebbe valere un libero canovaccio esposto ad ogni genere di interpretazione e di gusti discutibili oltre che, non raramente, erronei e di basso livello teologico, spirituale e culturale?
In realtà il canovaccio è preferito al protocollo nel contesto antropocentrico, il quale insiste perché l’espressione della religiosità naturale dell’uomo abbia il suo spazio e prevalga sulla oggettività del culto stabilito da Dio. Il teocentrismo invece dà il primato alla liturgia in quanto realtà che discende dall’alto ed è rivelata in Cristo. Si deve del resto ricordare che la religiosità naturale è ormai inficiata dal peccato originale ed attuale e non glorifica il Signore, né salva e nostre anime.
Si tratta allora di ritornare al senso e al gusto della legge liturgica e alla sua osservanza fedele sulla convinzione che solo in tal modo il culto a Dio mantiene la sua nobile dignità e la salvezza delle anime ottiene la sua massima efficacia salvifica.