Il Pensiero Cattolico

8 Settembre 2024

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S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

Dodicesima Riflessione

Fratelli e sorelle in Cristo, in qual contesto la Vergine di Guadalupe propone di insegnarci il mistero dell’amore sempre fedele e misericordioso di Dio? Nel contesto del nostro ingresso nella casa di Dio. Avendo annunciato a San Juan Diego la verità riguardo a Sé come Madre di Dio e Madre della Divina Grazia, Ella non ha proposto che questi fondasse un movimento o intraprendesse qualche altra iniziativa per il compimento della missione della Madonna, quanto piuttosto che chiedesse al Vescovo Juan de Zumarraga di costruire una cappella.

Nel Suo messaggio sul Tepeyac, in cui continua a parlare a tutti i Suoi figli nella Sua capella ivi situata, Ella li invita a fare un pellegrinaggio fino a Lei, così che possa portarli al Suo Figlio divino, poiché lo scopo ultimo di ogni pellegrinaggio è quello di unire i nostri cuori al Suo Cuore Sacratissimo, specialmente mediante il Sacrificio eucaristico.
Pertanto, vi invito a fare un pellegrinaggio al Santuario di Nostra Signora di Guadalupe a La Crosse, Wisconsin, il prossimo 12 dicembre, per prendere parte alla solenne offerta della Santa Messa.
Durante la Santa Messa, sotto il mosaico di Nostra Signora di Guadalupe, guiderò l’assemblea nell’atto di consacrazione a Nostra Signora di Guadalupe, come culmine della nostra recita quotidiana della preghiera ufficiale della novena di nove mesi.
Vi prego di venire al santuario per compiere l’atto di consacrazione con me. Nel frattempo, sforziamoci ogni giorno di unire i nostri cuori sempre più completamente al Sacro Cuore, attraverso il Cuore Immacolato di Maria.

Preghiamo…

Video della riflessione con alla fine la recita della preghiera da parte del Card. R.L. Burke

Don Enrico Finotti

Basi teologiche per la “Riforma della riforma”

La vigente riforma liturgica decretata dal Concilio Varicano II è un fatto teologico, che deve essere accolto per camminare in comunione con la Chiesa Cattolica. Se non si parte da questo dato storico e concreto ci si espone al rischio di voler fondare una ‘chiesa’ alternativa basata su concetti e scelte del tutto soggettivi, affidandosi alla leadersip di persone private che sfidano l’autorità costituita.

E allora necessario tener presente il motto: Quod Ecclesia fecit, potuit [Ciò che la Chiesa ha fatto lo poteva fare]. Ciò vale soprattutto in materia dogmatica e sacramentale. Infatti la dottrina della fede e le fonti della Grazia devono avere la massima garanzia di validità per l’essere stesso della Chiesa: senza integrità dogmatica e validità sacramentale la Chiesa collasserebbe e verrebbe meno il dogma della sia indefettibilità e della sua infallibilità in docendo et in sanctificando.
Occorre altresì ribadire un altro motto: De lege condenda et de lege condita [Riguardo alla legge in formazione (in fieri) e riguardo alla legge promulgata]. Bisogna distinguere tra lo stato di vuoto legislativo (de lege condenda) dei tempi in cui la Chiesa intraprendeva la riforma liturgica e permetteva una certa libertà di opinioni e di attuazioni, e lo stato in cui la legge liturgica è stata promulgata dalla legittima autorità (de lege condita). Da questo secondo momento si è tenuti ad osservare la legge liturgica applicandola integralmente secondo i libri liturgici definiti e promulgati. Ciò significa che nel momento attuale è necessario celebrare la liturgia nella rigorosa fedeltà alla forma oggettiva dei suoi riti. Di conseguenza ogni creatività soggettiva ed ogni divaricazione dai riti stabiliti deve essere rimossa e gli abusi vengano così individuati, condannati ed esclusi dal novero degli atti liturgici ufficiali della Chiesa.
Non viene meno comunque il giusto senso critico che tiene aperta la valutazione delle riforme liturgiche con le possibili perplessità e gli eventuali emendamenti da proporre all’autorità ecclesiastica competente. Infatti la Chiesa è semper reformanda nel suo itinerario verso la pienezza del Regno di Dio, e quindi anche la sua liturgia lo è nelle parti suscettibili di cambiamento (SC). In questo contesto sarà possibile la ricerca e il tendere sempre al meglio pur nella fedeltà alle leggi stabilite e nella sottomissione all’autorità della Chiesa.

E’ necessario premettere che le scelte liturgiche più impattanti sono state fatte fin dal primo giorno in cui venne celebrato il Novus Ordo Missae. Infatti il 7 marzo 1965 fu rimosso il tabernacolo dall’altar maggiore; l’altare, ridotto a semplice mensa, fu rivolto al popolo; e la comunione venne amministrata in piedi e camminando. Ciò significa che furono interessati simultaneamente i tre aspetti essenziali del dogma eucaristico: la Presenza reale (rimozione del tabernacolo centrale), il carattere sacrificale della Messa (mensa verso il popolo), la sacralità della comunione eucaristica (rimozione della balaustra). Queste tre scelte rituali sono decisamente le più incidenti nella percezione del popolo e quelle che saranno destinate a rendere permanente la differenza rituale tra il vetus e il novus Ordo Missae. Tuttavia tali indicazioni furono facoltative e non tassative per cui resta la libertà del sacerdote a farne uso o meno. Per questo è ancora aperta la possibilità di ricorrere a questa opzionalità soprattutto nelle chiese storiche dove l’altare maggiore, il tabernacolo monumentale e la preziosa balaustra restano testimoni della tradizione liturgica precedente.
Un primo passo possibile è attuare ciò che già la legge liturgica consente senza necessità di ulteriori e specifici decreti giuridici o particolari indulti. Si tratta del ritorno all’altare storico (altar maggiore) per la liturgia sacrificale; del ritorno all’uso del tabernacolo monumentale sul medesimo altare e del ritorno della balaustra per amministrare la santa Comunione. Questi tre elementi sono già consentiti dalla liturgia vigente e sarebbero in grado di risanare i tre aspetti essenziali del dogma eucaristico: mediante l’uso del tabernacolo storico e centrale si ribadisce con forza la reale Presenza; mediante l’uso dell’altare storico col suo orientamento ad Crucem si attesta visivamente il carattere sacrificale dell’Eucarestia (infatti l’altare monumentale latino è pensato da sempre come icona del Calvario al quale si sale per offrire il Sacrificio incruento); mediante l’uso della balaustra si amministra la Santa Comunione in bocca e in ginocchio ed è in tal modo assicurata la dignità del Sacramento e la devozione dei comunicandi.
Ci si interroga sul fatto che tali scelte non siano facilmente realizzate e ancor meno conosciute. Si risponde che queste non sono eliminate de lege (che anzi de lege sono consentite), ma sono impedite dall’ideologia. Tale ideologia ha intaccato vescovi e presbiteri che ostacolano de facto coloro che intendessero fare queste scelte, ma è pure penetrata ormai nel popolo che, educato in tal senso da decenni, resiste a tutti coloro che intendesse riproporre tale equilibrio.

E’ evidente che:

– fin tanto che il SS. Sacramento si trova in una ‘riserva’ emarginata, laterale e alquanto mediocre, mentre il tabernacolo monumentale rimane permanentemente vuoto, non si potrà pretendere che venga assicurato il nobile culto di latria che la Chiesa riserva al divin Sacramento dell’altare;

– fin tanto che la parte sacrificale della Messa viene celebrata su una semplice mensa priva delle caratteristiche proprie dell’altare/ara priva di ascendenza e rivolta permanentemente versus populum, non si potrà pretendere che il popolo di Dio e gli stessi sacerdoti percepiscano la Messa come attuazione sacramentale del Sacrificio cruento del Calvario, bensì tutti saranno indotti a ridurre la Messa ad un rito di comunione, quasi che essa sia soltanto il banchetto sacro del cenacolo senza alcuna valenza sacrificale;

– fin tanto che la santa Comunione viene amministrata in mano e in piedi ed eventualmente fosse distribuita in qualsiasi luogo della chiesa senza riguardo alla dignità di tale luogo, non si potrà attendersi né che i sacerdoti mantengano la nobiltà del gesto sacro nella consegna del Sacramento, né che i fedeli lo possano ricevere con adorabile circospezione e devozione interiore.

Questo recupero di equilibrio porterebbe da un lato a celebrare il mistero della fede nell’integrità del dogma eucaristico sotto i suoi aspetti indissolubili (Presenza Sacrificio e Convivio), dall’altro ad evitare per il futuro danni irreparabili al patrimonio artistico delle nostre chiese storiche con adeguamenti inconsulti e forzati.

La liturgia in tutte le epoche e in tutti i Riti approvati dalla Chiesa è sempre stata intesa come un protocollo sacro rigoroso e mai come un canovaccio libero lascito all’inventiva del sacerdote. Ciò significa che i riti sono sempre stati determinati anche nei particolari da rubriche precise in modo da escludere ogni equivocità e consentire deleteri soggettivismi. Il fatto si comprende alla luce dell’identità stessa della liturgia che riflette i gesti e le parole del Signore che sono le fonti della grazia. Tali gesti e parole non possono essere lasciate all’interpretazione precaria e talvolta eversiva del sacerdote, ma devono ricevere la massima garanzia di una trasmissione integra sia per l’onore dovuto al culto verso Dio, sia per l’efficacia soprannaturale della santificazione delle anime. Infatti un culto corrotto o mediocre, né onora Dio, né santifica il popolo.
La scelta ‘pastorale’ della vigente riforma liturgica ha intrapreso una modalità diversa (prima sconosciuta) per impostare i riti sacri: il modello del canovaccio nel senso di una legge/quadro che si limita ad indicazioni di massima con larghe possibilità di adattamento lasciate al sacerdote e agli operatori in genere nell’azione liturgica. In conseguenza il sacerdote stesso ha facoltà di intervenire con monizioni libere in molteplici passaggi del rito fino al punto da diluirlo in un cumolo di chiose soggettive e talvolta inopportune (sermonite); inoltre i riti stessi, definiti nell’Editio typica vaticana, sono consegnati alle varie Conferenze episcopali munite della facoltà di poterli rielaborare in loco col rischio di possibili danni alla qualità teologica e alla continuità con la secolare tradizione, oltre che in conflitto con l’unità liturgica del rito romano.
Con questa scelta il novus ordo Missae e l’insieme di tutti i riti liturgici romani riformati sono diventati precari e rischiano l’implosione interna: gli stessi fautori della riforma liturgica a questo punto non la possono più controllare a causa di quei medesimi principi ispiratori che essi stessi hanno difeso e che ora sfuggono alla loro gestione. Non possiamo lamentare ogni genere di abuso finché la liturgia sarà afflitta da criterio libero del canovaccio, che rende impossibile esigere una determinazione e pronunziare un giudizio oggettivo con conseguente sanzione.
Si tratterà allora, da un lato di evitare di applicare tutte le eccessive possibilità di creatività offerte dal vigente rito celebrando invece con rigore e fedeltà secondo il preciso dettato delle rubriche; dall’altro di auspicare un cospicuo emendamento in ordine al ritorno di un protocollo liturgico sacro più determinato, che non dia campo libero all’insidia della creatività e all’estro soggettivo e sentimentale del sacerdote e degli altri operatori liturgici.
Si osservi in proposito come quella libertà celebrativa che viene invocata per la liturgia non la si esige per l’esecuzione di uno spartito musicale, né per un protocollo sanitario, né per una operazione economica, né per un atto giudiziario o nell’elaborazione di un testamento, per i quali si pretende un’osservanza rigorosa e una esecuzione formale meticolosa e passibile di sanzioni. Se ciò vale per le effimere questioni umane, perché per ciò che attiene il culto divino e nelle fonti stesse della salvezza soprannaturale ed eterna dovrebbe valere un libero canovaccio esposto ad ogni genere di interpretazione e di gusti discutibili oltre che, non raramente, erronei e di basso livello teologico, spirituale e culturale?
In realtà il canovaccio è preferito al protocollo nel contesto antropocentrico, il quale insiste perché l’espressione della religiosità naturale dell’uomo abbia il suo spazio e prevalga sulla oggettività del culto stabilito da Dio. Il teocentrismo invece dà il primato alla liturgia in quanto realtà che discende dall’alto ed è rivelata in Cristo. Si deve del resto ricordare che la religiosità naturale è ormai inficiata dal peccato originale ed attuale e non glorifica il Signore, né salva e nostre anime.
Si tratta allora di ritornare al senso e al gusto della legge liturgica e alla sua osservanza fedele sulla convinzione che solo in tal modo il culto a Dio mantiene la sua nobile dignità e la salvezza delle anime ottiene la sua massima efficacia salvifica.

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Pio Daniele Mizzau

Architetto

Chiese o Fiere?

Luoghi di culto espressione di una forte apostasia generale

Se le chiese moderne sono brutte, è colpa di architetti atei …                                                                                     (Vittorio Sgarbi)

Punti della relazione

  • Immagini
  • Anamnesi generale
  • Indagini
  • Cosa fare?
  • il Futuro

Immagini

  • Cattedrali classiche emblema di un fervore del passato
  • Chiese o “volumi” moderni manifestazione apostatica

Anamnesi generale

Atei, agnostici, acattolici o cattolici, tutti o quasi si è d’accordo nel pensare che gran parte dell’architettura cattolica contemporanea è in genere respingente, asettica, politicamente neutra … brutta! Per non parlare dei moderni monumenti religiosi, magari ci si limitasse al buon vecchio kitsch, ai Cristi a braccia aperte in cemento pressofuso, o alle Madonne dal vestito blu troppo elettrico, oggi siamo al Padre Pio della Rotonda di Pentri (Bn), tragico esercizio stilistico contro il povero fraticello di Pietrelcina.
In tema di chiese e Padre Pio, si possono notare le tre costruzioni sacre che si trovano a pochi metri l’una dall’altra a San Giovanni Rotondo. La prima chiesetta del monastero delle Grazie, ultimata nel 1676, un dignitoso barocco meridionale. A fianco c’è la nuova chiesa, progettata da Giuseppe Gentile e ultimata nel 1959, più grande (non per Padre Pio), inpersonale, fredda. In basso la chiesa nuovissima, progettata da Renzo Piano, e inaugurata nel 2004, 6000 posti dalla forma improbabile, senz’altro non riconoscibile come chiesa. Qualcuno (Mons. Villa su Chiesa Viva n. 381 del 20.02.2006) ci ha visto vari riferimenti a un tempio massonico (croce di Pomodoro etc..).
Altri si limitano a notare che lo schema architettonico ricorda il ventre di una balena, un grande ambiente “polifunzionale” e rigorosamente aniconico! Tre monumenti così, a pochi metri l’uno dall’altro fanno riflettere sull’antico, sul moderno e sul contemporaneo: il concetto risibile di progresso in religione. E questa sembra l’idea di fondo che percorre il libro di Angelo Crespi “Costruito da Dio”(2017). Perché le chiese contemporanee sono brutte e i musei sono diventati le nuove cattedrali, giornalista e saggista di esperienza, è stato ispirato a scrivere quest’ultimo libro, come racconta egli stesso nelle prime pagine, da “un cesso!” (cit.).
Trovandosi in una chiesa del Nord Italia, “la chiesa moderna più brutta del mondo”, Crespi si è accorto che la porta della toilette si trovava proprio lì, a due passi dall’altare ove si celebrava l’Eucarestia. La toilette funge da emblema dell’arte contemporanea, vedasi il vaso di Duchamp alla Tate Gallery di Londra ove migliaia di persone lo contemplano. Da qui l’idea di scrivere un libro che racconti lo stano cortocircuito tra civiltà de-sacralizzata e architettura sacra.
Una verifica puntuale dello stato dell’arte (sacra) che mostra, punto per punto, passo per passo, come l’architettura religiosa abbia assorbito i canoni estetici di un’iconoclastia sempre più totalizzante una fatale nostalgia di Trascendenza.
Il brutto, il nulla, il freddo invadono gli spazi comunitari dedicati alla religione. E non è una metafora: nella chiesa di San Paolo Apostolo di Foligno progettata da Massimiliano Fuksas, un cubo di cemento, realizzato dopo il terremoto del 1997, i fedeli d’inverno gelano. Sono costretti ad ascoltare la messa nel salone parrocchiale, perché all’interno non si resiste. E i vincoli estetici imposti dal progettista non permettono di intervenire dotando l’edificio di un sistema di riscaldamento adeguato. Ed è tutta una galleria degli errori e degli orrori quella raccontata da Crespi nel suo libro. Dalla chiesa di Santa Maria della Presentazione a Roma progettata dallo studio Nemesi – moderna stazione ferroviaria – alla chiesa del Santo Volto a Torino progettata da Mario Botta – rossa fornace industriale! Ci sono anche significativi accenni alla presenza del Vaticano alla Biennale di Venezia che sotto l’egida del Cardinale Gianfranco Ravasi espone con titoli autoironici come “Creazione, De-creazione, Ri-creazione” e mai una volta che sia stata mostrata la croce…
Ancora una volta sembra realizzarsi la profezia del filosofo Augusto Del Noce «ogni presunta avanguardia cattolica, in realtà, è sempre la retroguardia del progressismo di ogni maniera» Secondo Crespi a questo movimento antisacrale dell’architettura religiosa genera un proliferare e trionfare di “nuovi spazi sacri,” laicamente sacri: I sempre più diffusi musei! Che raccolgono ripropongono, offrono, vendono, pur con tutte le contraddizioni del sistema dell’arte contemporanea una sorta di contemplazione spendibile, gestibile, socialmente agibile.
Infatti mentre di chiese se ne fanno sempre meno, di musei se ne costruiscono sempre di più. Che Dio perdoni gli architetti per le chiese che gli hanno dedicato !
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Alfredo Villa

Quale è il senso delle aperture del Vaticano sul fine vita?

Si tratta di una domanda apparentemente complessa per la quale vi sono alcune risposte relativamente semplici. Può essere da considerarsi come positivo il fatto che la Pontificia Accademia per la Vita, possa portare un contributo atto a favorire una legislazione migliore e che, in qualche modo, questa possa aiutare chi muore, ma in realtà essenzialmente il team curante ed i famigliari, ad affrontare delle scelte, di fronte alle quali, oggi, si hanno dei riferimenti normativi insufficienti e spesso, nella realtà, aggirati. Una buona legge, formulata anche con l’aiuto della Chiesa, che avrà comunque un ruolo veramente marginale in tale formulazione, potrà servire a ridurre il dolore e le difficoltà inerenti ad alcune tragiche situazioni particolari.


Tali aperture hanno invece poco senso, se non alcuno, se la Chiesa tendesse a concentrare le sue migliori energie sul processo del morire, sulle tecnicalità e le norme e non sul senso stesso della morte, senso che dovrebbe essere il nucleo di ogni sua azione pastorale.
Per quanto riguarda la morte ed il morire, però, l’opinione del popolo, che spesso è Voce di Dio, è che la Chiesa parli di qualche cosa di cui non sa nulla e che quindi parli a sproposito.
Il fatto che questo non sia per nulla vero è purtroppo l’evidenza di come non si sia riusciti a trasmettere ed in qualche modo a donare concretamente a chi muore la ricca e soprattutto salvifica, Tradizione cristiana, sul morire.
Questa opinione, che vuole la Chiesa estranea alla morte ed al morire, credo si basi sull’esperienza personale della maggioranza degli uomini contemporanei, che si appresta a morire spesso in solitudine.
La Chiesa, che in effetti dovrebbe essere l’unica a poter parlare della morte e del morire, ha in buona parte rinunciato a questo suo compito costitutivo nello stesso istante in cui ha smesso di essere presente, per lo meno nel mondo occidentale, dove si soffre e si muore, perdendo così l’ineffabile privilegio e l’incomparabile grazia che deriva dall’essere accanto ad ogni agonizzante, che con il suo morire inevitabilmente ed in modo misterioso, tende a confermare e rafforzare ogni Verità di Fede e dà testimonianza nella sua carne di quelle sacre Verità, che la Chiesa stessa è chiamata a portare ad ogni uomo.
Così facendo effettivamente priva sé stessa di tale Grazia, in quanto, pur con comprensibili motivi storici, sociali e di effettive energie in termine di numero di pastori, non è vicina ad un’inestimabile fonte di santità ed ad una forza vivificante, che a sua volta potrebbe, a mio avviso essere motivo di rinascita di fede e di vocazioni.
Credo si possa dire che l’accompagnare i morenti ad una morte cristiana potrebbe avere al giorno d’oggi gli stessi effetti del sangue dei martiri per le prime comunità.
Mentre leggevo i recenti articoli sulle “aperture e mediazioni legislative”, del Vaticano quanto ad idratazione, alimentazione e testamento biologico, mi sono venuti in mente le migliaia di sacerdoti che sul carro del condannato a morte, fino all’ultimo istante svolgevano il loro compito di favorire la salvezza di quell’anima.
Mi sono ricordato del primo “miracolo” di Santa Teresina di Lisieux che per salvare l’anima di un condannato a morte impenitente, che in quanto tale era destinato non sollo alla ghigliottina ma anche all’inferno, si è sacrificata con preghiere e privazioni, affinché quest’ultimo, richiedesse ed accettasse i conforti religiosi e pentendosi, potesse entrare in Paradiso.
Ho pensato alle promesse fatte da Gesù a Santa Faustina, quanto al dono della salvezza dell’anima della persona per cui si prega la Coroncina della Misericordia durante la sua agonia.
La Chiesa è sempre stata interessata alla salvezza delle anime, più che al come ed in che modo queste anime fossero strappate alla vita.
Se la Chiesa, che significa innanzitutto, in una gerarchia ben precisa, i suoi sacerdoti e religiosi e poi il popolo dei credenti, fosse ancor oggi accanto ai morenti a dire loro incessantemente e fino all’ultimo istante quelle parole di vita eterna che le sono state trasmesse da Cristo stesso, metterebbe sicuramente in secondo piano la mediazione su alcuni aspetti procedurali e sulla loro eticità.
E se poi, attingendo dalla tradizione quelle preghiere, quei gesti e quelle liturgie che preparano e consolano il morente, promuovesse ed impartisse quei Sacramenti che sono certezza di Vita Eterna, si renderebbe conto che, una volta fatto tutto quanto in suo potere e compiuto con fede il proprio compito con la dovuta sacralità, il fatto che si interrompa o no la nutrizione o l’idratazione sarebbe di per sé meno importante.
La difesa della vita a cui la Chiesa è chiamata, decade e diviene sterile argomentare, nello stesso istante in cui essa stessa smette di credere nella Vita Eterna, concentrandosi su di una prospettiva temporale e finita, senza essere più in grado di introdurre e preparare l’uomo alla sua inevitabile eternità.
È quindi la Vita Eterna che la Chiesa ed i cristiani sono chiamati a custodire e proteggere, anche perché le sono stati affidati gli strumenti per poterlo fare, ovvero la Parola di Dio ed i Sacramenti.
La Chiesa ha il dovere di stare accanto a chi muore, per trasformare la naturale paura in speranzoso avvento e questo grazie allo stravolgente annuncio del Vangelo, da portare soprattutto a chi tale annuncio non conosce o lo ha dimenticato.
La Chiesa ha l’obbligo, non morale, ma costitutivo di accompagnare i morenti, affinché questi conoscendo Dio, lo possano amare e per tale amore, desiderare ed essere certi, che tutte le Sue promesse saranno mantenute.
Nella sua bellissima lettera di commiato, Papa Benedetto XVI non nega il timore del morire, ma riconosce che il desiderio di incontrare Qualcuno che ha imparato ad amare per Grazia ed a conoscere, se pur parzialmente, attraverso la Chiesa, è infinitamente più grande di ogni angoscia.
Con poche e semplici parole il Papa non ha fatto altro che esemplificare con chiarezza quale sia il compito della Chiesa accanto a chi muore. E questo compito non può essere svolto se non si è fisicamente presenti al capezzale di ogni agonia.
Quindi non posso che pregare affinché la Chiesa riduca il discutere sul processo del morire, ma inizi a parlare a chi muore, dicendo quelle parole, che non sono sue, ma che è chiamata a custodire ed a trasmettere per la salvezza delle anime, che è, invece, suo compito esclusivo.
Essere una delle autorità morali tra altre, una delle molte religioni, la depositaria di una delle verità annunciate da un profeta, una delle strade possibili per giungere a Dio è tradire, nel suo nucleo, il fatto che Gesù sia Via, Verità e Vita.
Il negoziare, il mediare, la sinodalità o qualsiasi altra azione umana atta a mostrare il volto dialogante e comprensivo della Chiesa, non deve far dimenticare che il vero volto della Chiesa è quello del Cristo sofferente nella Passione e glorioso nella Resurrezione, un volto, il primo, che abbiamo la grazia di incontrare in ogni agonizzante.
La Chiesa non deve temere di perdere un “posto” in questo mondo. Ne ha già uno importantissimo che è quello di stare accanto a chi muore e soffre, anche perché tale posto non le sarà mai tolto, in quanto è un posto che nessuno vuole, soprattutto se questo compito doloroso ed impegnativo è da svolgere in assoluta gratuità.
Invece che lo “stare accanto” reale, che è fatica e coinvolge tutti i cinque sensi, il sovrastimare il dialogare ed il disquisire sulla morte ed il morire, può procurare la falsa certezza di aver fatto veramente qualche cosa per i morenti quando in realtà si è fatto ben poco per loro.
Il dialogo e la negoziazione rischiano d’annacquare la responsabilità individuale, anestetizzando la colpa personale e quindi -qui sta il vero pericolo- di annullare il santo impulso di chiedere costantemente perdono a Dio per le nostre mancanze.
Il disquisire di etica e morale non solo riduce la chiamata all’agire, ma dà quella falsa consolazione ed assoluzione personale, di cui costantemente ci nutriamo, che porta a dimenticarci del morente e lo priva di quella vera Consolazione e Assoluzione di cui ha estremamente bisogno.
A poco servono le prese di posizioni, che sono unicamente morali ed etiche, su argomenti che trascendono l’uomo e che resteranno per sempre nascoste nel mistero di Dio.
E per quanto è solo Dio che salva, l’Inferno alcuni possano ritenerlo vuoto, l’uomo sia un servo inutile nel piano salvifico di Dio, la Chiesa ed i cristiani sono obbligati a collaborare alla salvezza propria ed a quella del prossimo. Una salvezza che si gioca in ogni istante della vita ed in modo particolare nella morte, oltre la quale nulla è più possibile agli uomini.
Personalmente ritengo una Grazia incommensurabile quella d’aver la possibilità di essere accanto a chi soffre e di poter testimoniare a chi sta per morire, attraverso le mie povere possibilità, l’amore di Dio e la presenza della Chiesa e di poter avere il privilegio di pregare per la sua anima, sapendo che se la mia anima sarà un giorno immeritatamente salvata è sicuramente grazie al fatto che le persona che in quel momento sto accompagnando a morire, sarà la prima a chiamarmi in Paradiso ed a intercedere per me.
Sembra tutto molto, troppo semplice, ma credo proprio che sia così che si manifesta la Volontà di Dio quando ci comanda l’amore per il prossimo.
Forse l’amore per il prossimo si può riassumere, come massima sua manifestazione, nel consumante desiderio di saperlo salvo a costo della propria stessa vita. Del resto, questo non è null’altro che la testimonianza reale che ci giunge dalla Croce.
Che Dio non voglia che la Chiesa, che esiste proprio perché ha ricevuto tutti i talenti possibili, non sia come il servo della parabola, che prende l’infinità dei suoi talenti e li nasconda sottoterra, privando, nello specifico, il morente dell’unica cosa di cui ha veramente bisogno.
E soprattutto che non sia che questi talenti finiscano sottoterra, non per paura di un Padrone esigente, ma per il miraggio di un Dio buono che perdonerà comunque tutto e tutti.
Il perdono a priori non è certo il messaggio da portare a chi muore, che invece ha solo bisogno di Verità e di sapere che non vi è nessuna differenza tra chi muore e chi accompagna quanto alla responsabilità personale e comunitaria di desiderare quella Salvezza che sempre e per sempre viene offerta dalla Misericordia di Dio grazie all’incommensurabile prezzo pagato da Gesù e da tutti coloro che consapevolmente soffrono, alla Sua Giustizia.
Ciò che veramente conta ed è essenziale, ha poco a che vedere con le modalità del morire che uno Stato qualsiasi determinerà essere quella migliore, modalità che diventa apparentemente argomento importante quando, non sapendo più testimoniare la Verità di Cristo, si ha come unico interlocutore l’uomo.

 

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S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

Undicesima Riflessione

Fratelli e sorelle in Cristo, nel piano di Dio per la nostra salvezza, la Beata Vergine Maria incoronata nella Sua Assunzione come Regina del Cielo e della terra è la Mediatrice di tutte le grazie. La Madonna ha svolto la Sua opera di Mediatrice in modo meraviglioso nel 1531 sul Tepeyac. La Sua Maternità divina, in virtù della quale Ella è anche Madre della Divina Grazia, è stata confermata da Nostro Signore in maniera straordinaria quando Egli lasciò la di Lei immagine sulla tilma, o mantello, di San Juan Diego.

Ad oggi, la sacra immagine rimane intatta ed irradia amore materno e miracoloso. Ho fatto personale esperienza di questo amore scrutando la tilma nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico.
Nel Santuario di Nostra Signora di Guadalupe a La Crosse, Wisconsin, l’immagine sacra è stata riprodotta in forma di mosaico dallo Studio del Mosaico Vaticano. Tra quattro mesi, il prossimo 12 di dicembre, io e tutti i presenti, di persona o tramite i media, ci consacreremo a Nostra Signora di Guadalupe nel Suo santuario a La Crosse, Wisconsin. È mia sincera speranza che tu possa venire nel santuario per unirti a me in quest’atto solenne di amore per Nostro Signore e per la Sua opera di salvezza nella Chiesa. Nel santuario, Nostra Signora di Guadalupe ci manifesta il grande mistero dell’amore di Dio per noi, invitandoci ad avere totale fiducia nelle Sue promesse.
Consacrarci nel santuario sotto l’ispirazione e la direzione della Vergine Madre di Dio, Nostra Signora di Guadalupe, sarà la nostra risposta all’inesauribile e smisurato amore del Signore per noi. Sforziamoci di rispondere, anche nel nostro quotidiano, sempre più fedelmente e generosamente alle cure materne e al consiglio della Madonna. «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Dunque, possano i nostri cuori essere trasportati dal Cuore Immacolato di Maria nel Sacro Cuore del Suo Figlio, Gesù.

Preghiamo…

S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

Decima Riflessione

Quando la Madonna intercedette per ristabilire la salute di Juan Bernardino, Ella gli comandò anche di comunicare al Vescovo il miracolo della sua guarigione. Fu in questo momento che Ella chiese pure che Lei e la Sua immagine sulla tilma fossero conosciute con il titolo di “Santa Maria di Guadalupe”. Le vere gioie richiedono di essere condivise. Quando siamo mossi da qualcosa di vero, di buono o di bello, sentiamo il bisogno di raccomandarlo agli altri.

Quando sentiamo una buona notizia, la prima cosa che vogliamo fare è condividerla. Godiamo addirittura nello spiegare in dettaglio, alla nostra famiglia e ai nostri amici più stretti, la complessità delle buone attività che ci piacciono. Quando amiamo davvero qualcuno, vogliamo che gli altri partecipino a questo amore con noi. Dunque, miei fratelli e sorelle in Cristo, prendiamo un momento per esaminare come condividiamo il nostro amore per la Madonna con coloro che ci circondano. La Santa Madre Chiesa ha preservato così tante belle devozioni mediante le quali possiamo fare esattamente questo. Invitiamo gli altri a pregare il Rosario con noi. Indossiamo lo scapolare o la Medaglia Miracolosa. Facciamo dell’osservanza delle feste mariane un punto fermo con un’adeguata celebrazione – magari invitando amici e famigliari alla Santa Messa o ad un pasto a casa nostra. Qualsiasi cosa vi sembri più spiritualmente e praticamente appropriata nelle vostre vite, non siate timidi nell’amore alla Beata Vergine poiché, crescendo nell’amore per Lei, vi avvicinerete sempre più al Suo Figlio divino, il Nostro Signore Gesù Cristo, e porterete una testimonianza ancor più grande al vostro amore per Lui che, solo, è la nostra salvezza, richiamando così altri a conoscerLo e a conoscere la salvezza che Egli offre a noi nella Sua santa Chiesa.

Preghiamo…

Redazione IPC

Proposizioni per un’Arte Sacra secondo lo Spirito

Sintesi di un incontro tenuto sul tema dell'Arte Sacra.
Relatori: Don Nicola Bux, Giorgio Esposito, Maria Teresa Ferrari, Nicola Barile, Chiara Troccoli, Antonio Calisi.

Veni, Creator Spiritus
mentes tuorum visita
Imple superna gratia
quae tu creasti pectora

A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, favorita dal ’68 che ha fatto da catalizzatore, l’arte odierna, è in gran parte una pseudo-arte: vuole scioccare, provocare – talora in modo blasfemo – stuzzicare istinti, narcotizzare la ragione ed eccitare le pulsioni. Invece, a partire dai Greci,- eccezion fatta per la componente bacchica –  l’arte è stata considerata come realizzazione di armonia, sia nei capolavori, sia nello spirito e nella ragione dei fruitori, che devono appunto ricavarne armonia, pace, serenità, nutrimento spirituale e un incremento di conoscenza morale. Persino l’arte cristiana attraversa un’apostasia: ha dimenticato che attraverso il bello(kalòs)diventa più facile promuovere il bene(agathòs) e mostrando la ripugnanza-bruttezza del male, in specie della menzogna, è più facile giungere al vero (alethòs). Così, come ricorda san Tommaso: bonum, verum et pulchrum in unum convertuntur. E san Giovanni Damasceno: I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce.

  1. E’ ormai da molti anni che la Chiesa Cattolica ha sperimentato una nuova epoca nel suo millenario rapporto con l’arte e l’architettura sacra. Una nuova epoca segnata dalla ribellione dell’arte contemporanea e dal suo disprezzo verso “le forme vive o le forme degli esseri viventi”, secondo la definizione di Ortega y Gasset, disprezzo espresso in particolare dall’arte astratta ed informale.
  2. La via per il recupero di un sano rapporto fra arte e Chiesa Cattolica venne indicata nel 1964 da Sua Santità papa Paolo VI, nel suo memorabile “Discorso agli Artisti”. Il Santo Padre indicava allora i seguenti punti per il rilancio di un “patto” fra artisti e Chiesa:

    1. “Se vogliamo dare, ripetiamo, autenticità e pienezza al momento artistico religioso, alla Messa, è necessaria la sua preparazione, la sua catechesi; bisogna in altri termini farla prendere o accompagnare dalla istruzione religiosa.”
    2. “C’è poi bisogno del laboratorio, cioè della tecnica per fare le cose bene. E qui lasciamo la parola a voi che direte che cosa è necessario, perché l’espressione artistica da dare a questi momenti religiosi abbia tutta la sua ricchezza di espressività di modi e di strumenti, e se occorre anche di novità.”
    3. “E da ultimo aggiungeremo che non basta né la catechesi, né il laboratorio. Occorre l’indispensabile caratteristica del momento religioso, e cioè la sincerità. Non si tratta più solo d’arte, ma di spiritualità. Bisogna entrare nella cella interiore di se stessi e dare al momento religioso, artisticamente vissuto, ciò che qui si esprime: una personalità, una voce cavata proprio dal profondo dell’animo, una forma che si distingue da ogni travestimento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore.”

  3. A distanza di 60 anni da quelle parole, i risultati sono modesti se non del tutto deludenti. In una parola l’arte e l’architettura sacra oggi non sembrano favorire l’incontro con Dio, quanto piuttosto ostacolarlo costantemente.


Le cause della presente situazione

  1. Nonostante siano passati quatto secoli dalla sua pubblicazione il “Discorso intorno alle immagini sacre e profane” del Cardinal Gabriele Paleotti (1582) espone con chiarezza la causa principale dello sbandamento attuale: “E’ nostro parere che gli abusi non siano tanto da ascrivere agli errori che gli artisti commettono nel dar forma alle immagini, quanto piuttosto agli errori dei signori che le commissionano e che trascurano di commissionarle come si dovrebbe: essi sono le vere cause degli abusi, in quanto gli artisti non fanno che seguire le loro indicazioni.”


I riferimenti teologici

  1. Perfectio, Claritas, Armonia: i tre fondamentali dell’estetica cattolica sono riassunti nella Bellezza della Verità. L’unità, la verità, la bontà e la bellezza concorrono in modo determinante alla chiarezza e alla pienezza del sacro trinitario e della liturgia, ne costituiscono lo statuto fondamentale, la natura stessa della res sacra e ad un tempo della relazione di dipendenza con essa del fedele riunito al Cristo e alla Chiesa. L’arte sacra deve dunque essere Vera.
  2. La somiglianza, che nella Trinità è perfetta, sostanziale e piena, si sparge nella creazione per partecipazione, e vi si sparge proprio a causa del fatto che la ss. Trinità vuole avere anche fuori della sua arcana trascendenza delle creature, immagini di Sé, capaci di compiere intelligentemente e dunque liberamente la stessa santa Liturgia che Essa compie in Sé. L’Incarnazione del Signore è principio e fonte dell’arte sacra. Un’arte che irrida o non rispetti fedelmente il dogma dell’Incarnazione, rinnegandolo attraverso l’astrattismo e la rinuncia alle forme, è incompatibile con la definizione di “arte sacra”.
  3. La liturgia ci invita a rivolgerci al Signore distogliendo lo sguardo da noi stessi o da altre creature, per fissarlo, attraverso lo stesso sacerdote celebrante tutt’uno col Cristo, nella Gloria del Padre che lo stesso Cristo è. Dunque, la liturgia è sacra perché scende dall’alto, da Dio Trinità che è nei cieli, perciò è ‘il cielo sulla terra’, ed è sacra poi perché così deificante risale attraverso il sacrificio di Cristo al Padre che è nei Cieli.
  4. Il percorso parallelo e l’intima integrazione dell’arte con la Liturgia non ne concludono il senso. L’opera artistica ed architettonica, a differenza della liturgia, permane anche dopo la Liturgia. Essa ha perciò il compito aggiuntivo di essere eco della liturgia, una volta che questa sia terminata. Nella Liturgia nulla è superfluo, poiché anche ciò che non è necessario contribuisce alla sua bellezza, la quale a sua volta si rivela utile alla descrizione delle realtà celesti. La Liturgia è inoltre organica poiché nessuna sua parte ha senso se isolata dalle altre. Allo stesso modo la decorazione della chiesa e la sua struttura architettonica devono rivendicare una funzione pedagogica verso la fedeltà al messaggio evangelico e liturgico, il suo arricchimento estetico, e la comunicazione con il Signore nella Sua dimora.


Committenti ed Artisti

  1. Il sacerdote e il liturgista devono avere innanzitutto chiara l’identità cristiana e cattolica che ne fa la pars magna della committenza: di qui la verifica dell’identità dell’artista che, qualora non fosse altrettanto chiara, deve compiere un itinerario che parta dalla sua vocazione tecnica per giungere a quella cristiana e liturgica che sola può permettergli di creare un’arte sacra.
  2. La desacralizzazione ha reso incapaci di stupore chierici e fedeli, stupore che dipende proprio dalla presenza del Sacro. Se l’Incarnazione è la cifra essenziale, non è l’uomo che diventa Dio, ma è Dio che è diventato uomo. Per questo motivo nell’arte cristiana bisogna insistere sul ruolo dell’immagine. «L’ars celebrandi deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredo e del luogo sacro». (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, n.42).
  3. L’assenza nel percorso formativo del clero di indirizzi su arte ed architettura sacra è oggi percepita come una grave lacuna. E’ dunque fortemente sentita la necessità di istituire un percorso di formazione artistica ed architettonica fino al livello universitario patrocinato dalla Chiesa.
  4. L’artista deve essere innanzitutto tale, ovvero deve possedere una oggettiva maestria, specialmente nell’uso dei materiali e delle tecniche, per eseguire quanto gli viene commissionato e nello stesso tempo deve conoscere il Credo della Chiesa e la sua liturgia. Se in passato talvolta il primo requisito è stato negletto, oggi rischia di esserlo il secondo.
  5. La costruzione di un edificio sacro cristiano o una composizione musicale per la liturgia sono annuncio permanente di Gesù Cristo all’uomo. L’attività creatrice dell’artista non può dunque prescindere dalla morale e dalla fede. San Paolo ha esortato i cristiani a conoscere Cristo “secondo lo Spirito” e a non conformarsi alla mentalità mondana, a non secolarizzarsi. Vuol dire che la conoscenza interiore di Gesù porta alla conversione e all’abbandono di ogni accorgimento mondano. Un artista non credente può giungere a realizzare una chiesa se, operando, si immedesima nel mistero della fede pur commettendo alcune ingenuità o alfine ne scopre la grazia: la sua arte allora diventa testimonianza del vero ricercato e alfine trovato agendo. Tuttavia, ciò è possibile grazie ad un incontro, al rapporto con la presenza di Cristo, tramite qualcuno che ti introduce ad un diverso modo di conoscere la realtà. L’arte per sua natura non può essere lontana dalla fede, se non a causa di progetti ben calcolati e pagati.
  6. Quindi, essere contrari alle “grandi firme” non significa che i progetti di un architetto non credente o non cristiano o cattolico non praticante siano inutili e sempre fuorvianti. Possono invece risultare quali premesse o ‘ prove di stampa ’ per un dialogo che porti alla conversione o come si suole dire a un cammino di fede, prima che a progetti di edifici sacri veri e propri. Perché con un artista si dovrebbe fare eccezione? Tuttavia l’appartenenza ecclesiale non è un requisito secondario per costruire un edificio sacro. La prima ‘regola’ per fare arte sacra, sia essa architettonica o musicale, è appartenere alla Chiesa.
  7. L’artista cristiano è umile e quasi non deve comparire: a lui come a tutti è richiesta la conversione. Joseph Ratzinger ricorda che per essere condotti ad un nuovo modo di vedere, prima si deve cambiare il cuore: a partire dal centro interiore che è la croce e la risurrezione (Cfr. Introduzione allo spirito della liturgia, p 117). Perciò gli orientali esigono che per fare una icona ci voglia il digiuno. E’ la seconda ‘regola’: senza conversione non si può produrre arte sacra adatta alla liturgia.
  8. Ecco perché, la terza ‘regola’ dell’artista è la conoscenza della liturgia e della Scrittura, la continuità con la tradizione e col magistero di due millenni: l’artista cristiano non lavora da solo ma in comunione con la comunità ecclesiale di tutti i tempi. Una chiesa odierna non può essere in rottura con le forme consacrate dalla tradizione, pur innovandole e sviluppandole dall’interno. Non basta il consulente liturgico: questa è una figura propria di una Chiesa concepita come azienda.
  9. Una quarta ‘regola’ è la bellezza divina, che costituisce la fondazione ontologica dell’arte sacra. La caratteristica della liturgia è l’intima connessione di celebrazione rituale col suo simbolismo, di disposizione architettonica e iconografica e di mistagogia o interpretazione liturgica. Perché nella liturgia Dio si rivela all’uomo. Perciò ne segue che l’artista è ministro della bellezza, perché la Chiesa è casa di Dio e del popolo che gli appartiene.
  10. Quinta regola: se l’artista è umile, non c’è bellezza migliore che lasciarsi trasformare da Cristo. Solo così la bellezza può salvare il mondo mettendo ordine, l’ordine dell’amore. Per questo alla fine “solo l’amore è credibile”. Come può un artista costruire una chiesa immagine del corpo di Cristo senza l’amore teologale?
  11. Dunque l’arte sacra cristiana – cioè un’arte ordinata alla liturgia – si fonda su uno sguardo che si apre in profondità, poggia sulla dimensione ecclesiale della fede condivisa, chiede che l’artista sia formato interiormente nella Chiesa (cfr. Ibidem, p 127-131). La libertà dell’arte non significa arbitrio. Senza fede non c’è arte adatta per la liturgia, ma un conoscere Cristo “secondo la carne”.


Lo Spazio Sacro

  1. Centro della chiesa è Colui che in essa dimora. Sarebbe opportuno quindi reintrodurre l’orientamento a Cristo, e rendere fulcro dello Spazio Sacro il Tabernacolo e la Presenza Reale del Signore.
  2. Per reintrodurre la definizione di “spazio sacro” nel concetto di “templum” bisogna ribadire i suoi fondamenti costitutivi. La sacralità dell’edificio chiesastico è un dato di fatto dopo la sua consacrazione, atto che taglia una porzione di spazio agli usi profani e lo dedica, lo consacra, al culto di Dio. Per questa procedura le chiese possono bene essere dette anche templi, come manifesta l’etimologia della parola tempio dal greco τέμνω. Uno dei requisiti fondamentali dunque per esprimere la sacralità di uno spazio è proprio l’espressione della sua alterità rispetto al circostante. La tradizione architettonica ci ha trasmesso l’uso della monumentalizzazione dell’ingresso che sottolinea l’importanza del varco della soglia ed il suo carattere di spazio di transito tra due dimensioni diverse, e così anche l’interno delle chiese è stato caratterizzato da numerosi recinti a proteggere le aree di stretto uso sacerdotale da quelle laicali, e a sua volta quelle dedicate ai sacramenti da tutte le altre.
  3. Altro accorgimento importante che ritroviamo nell’architettura ecclesiastica occidentale fino a tempi recenti è la simmetria. La Chiesa corpo di Cristo prendeva corpo nella chiesa edificio e come un uomo si dedica a Cristo dal suo battesimo così per lo spazio si faceva altrettanto. Nella sua comparazione al corpo battezzato dunque, era inevitabile che nell’edificio consacrato si facesse allusione al corpo umano, massima creazione divina. Oltre alla pianta in forma di croce, molto spesso usata per le medesime ragioni, un elemento di somiglianza più generico ma più sostanziale è la simmetria, criterio di composizione che inoltre informa una tanto grande parte della creazione.
  4. Un terzo criterio utile alla definizione dello spazio sacro cristiano è la gerarchia degli spazi. Si intende qui una gerarchia nella disposizione spaziale delle diverse parti che compongono il luogo di culto, sia gerarchia della decorazione delle stesse. Quanto alla prima è opportuno che gli spazi dove si compiono le azioni liturgiche siano posizionati su un piano più elevato degli altri, elevazione che esprime l’importanza delle azioni da compiersi, che diventa simbolo del cammino di elevazione dell’uomo verso Dio, che avvicina al cielo, luogo simbolico della presenza divina, che infine aiuta la visibilità. Quanto alla seconda è opportuno altresì che la decorazione operi una gradazione dagli spazi meno sacri a quelli più sacri, gradazione per materiali, colori, soggetti.
  5. Sarebbe opportuno ripensare i cosiddetti adeguamenti delle chiese precedenti al Vaticano II, che hanno causato spesso la distruzione del patrimonio artistico con lo smantellamento iconoclasta di altari, balaustre e tabernacoli.
  6. Il recupero del canto gregoriano, della buona polifonia e musica organistica, antiche, moderne e contemporanee, servirebbe certamente a recuperare dei “vocaboli” liturgici che la Tradizione artistica e musicale cattolica ci ha offerto per secoli, ridonando una dimensione profondamente spirituale anche allo spazio sacro all’interno del quale la liturgia stessa si sviluppa.
  7. L’unità, la verità, la bontà e la bellezza concorrono in modo determinante alla chiarezza e alla pienezza del sacro e della liturgia – fatta di persone, cose e azioni – ne costituiscono in certo senso lo statuto fondamentale, la natura stessa della res sacra e ad un tempo della relazione con essa del fedele. La res sacra ha una dimensione giuridica, cioè è anche iusta per la sua natura cultuale e la sua essenza pubblica: perciò fare rito, arte e musica secondo tale dimensione “quadriforme”, è cosa buona e giusta.
  8. La formazione deve riguardare anche la committenza ove vige una confusione generale in ambito artistico. Per giudicare come valida un’opera d’arte sacra è necessaria una commissione di esperti. Inoltre si dovrebbero proporre Concorsi d’Arte sacra per consentire anche a sconosciuti artisti di esser scoperti e valutati. E’ importante che ci siano scuole o facoltà di architettura, che includano quanto fin qui descritto. Secondo una tradizione che si è vivamente conservata nella Chiesa orientale ed è definita “naodomia”, sarebbe altresì opportuno che la Chiesa Cattolica ripensasse le norme per la costruzione degli edifici sacri.

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S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Novena di 9 mesi a Nostra Signora di Guadalupe

Chiamata mondiale alla preghiera: per il ritorno a Nostra Signora

Nona Riflessione

San Juan Diego, per quanto fosse fedele messaggero della Madonna, non capì in pienezza i desideri di Nostra Signora. Pur avendo portato le rose miracolose al palazzo del Vescovo,
non avrebbe mai potuto immaginare il miracolo ancor più grande che sarebbe presto avvenuto, né avrebbe potuto conoscere fino a che punto il suo cooperare con i desideri della Madonna avrebbe glorificato Dio, né in che misura questo miracolo avrebbe aiutato a trasformare la sua nazione e la Chiesa nel continente americano e oltre.

San Juan Diego non sapeva niente di tutto ciò mentre si affrettava ad andare dal Vescovo. Eppure, è stato mediante la sua fede nel Signore e la sua cooperazione con i desideri della Madonna, col piano di Dio, che queste innumerevoli benedizioni si sono avverate. Miei fratelli e sorelle in Cristo, imitiamo questa fede nelle nostre vite.
Non possiamo conoscere la piena ampiezza dell’operare della grazia attraverso di noi – almeno non da questo lato dell’eternità. Tuttavia, Dio vuole agire attraverso di noi in modi che non possiamo neanche immaginare.
Desidera elargire grazie che non possiamo misurare. Dobbiamo solo offrirGli i nostri cuori nel compiere la Sua volontà in ogni cosa. Non sta a noi valutare il costo o il merito totali delle opere della nostra vita.
In ogni caso, questo è un compito impossibile per noi. È nostro dovere combattere per la santità e lasciare che la Divina Provvidenza disponga il resto. Per l’intercessione di Maria, possa Dio mettere ordine nei nostri cuori, in unione col Cuore Immacolato di Maria, così che possano sempre riposare nel Suo Cuore divino.

Preghiamo…

Eleonora Casulli

LA DONNA NEL GIUDEO-CRISTIANESIMO E NELLA CHIESA CATTOLICA

ESSERI IN RELAZIONE: L’IMPORTANZA DI GENESI 2, 18-20

Proseguiamo nel percorso che ci sta portando, con semplicità, a riscoprire nei racconti della Genesi sulla creazione dell’uomo e della donna, la visione del giudeo-cristianesimo e quindi della Chiesa relativamente al mondo femminile in se stesso e in relazione col maschile. Prendiamo in esame il secondo racconto della creazione: esso non è da considerarsi cronologicamente successivo al primo né alternativo ad esso, ma semplicemente un altro racconto che specifica e arricchisce il primo, concentrandosi in particolare sull’uomo e la donna e la loro reciproca relazione.

La relazionalità è una caratteristica essenziale della persona umana: siamo esseri in relazione già dal grembo materno e non possiamo, neanche volendolo, “liberarci” di questa caratteristica. Anzi, la psicologia, la pedagogia, la sociologia e le scienze umane in genere ci dicono che la nostra identità si forma proprio ed esclusivamente nella relazione con l’altro, motivo per cui il modo in cui ci posizioniamo nelle relazioni dice qualcosa di importante su chi noi siamo. Quest’ultimo concetto è estremamente importante quando si tratta di relazione fra maschio e femmina: se la dignità e la specificità di ognuno influenza e caratterizza la relazione fra i due, è anche vero il contrario, e cioè che la relazione fra i due definisce la dignità e l’identità di ciascuno.

“Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.” Gn 2, 18-20.

Il testo si apre con la solitudine esistenziale dell’uomo adam, inteso quindi come persona umana non ancora sessualmente specificata, solitudine che Dio giudica negativamente, dando l’idea di non aver completato l’opera della creazione di questo essere (infatti in Genesi 1, 31 l’uomo ormai creato maschio e femmina è giudicato “cosa molto buona”); il racconto prosegue con il vano tentativo dell’uomo, pedagogicamente indotto dallo stesso Creatore, di trovare una soluzione alla solitudine nella compagnia degli animali (e quanto si potrebbe dire anche su questo guardando la società occidentale contemporanea!).
La parola ebraica tradotta con “solo” è molto forte, indica un tipo di isolamento che è chiusura totale alla relazione con l’altro, totale impossibilità o incapacità di esprimere e comunicare la propria identità profonda [1]. Questa condizione non appartiene all’essere umano così come è pensato e voluto da Dio: “L’adam, maschio o femmina che sia, è creato non per l’isolamento-solitudine, ma per il dialogo, per la condivisione e la reciprocità, per la comunione. La relazione all’altro allora non è facoltativa, ma indispensabile perché la vita abbia senso, anche se può essere realizzata con modalità diverse” [2].
Il tentativo fallito del Creatore di far uscire l’uomo dall’isolamento esistenziale (“gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”) relazionandosi con gli animali, si conclude con la frase: “l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile”.
Essa denota innanzitutto una delusione da parte dell’uomo, che si riscopre superiore alle altre creature (impone il nome agli animali), ma al contempo incapace di trovare in esse la soddisfazione che cerca, delusione che lo aiuterà ad apprezzare la diversità sostanziale della donna, della cui creazione parleranno i versetti immediatamente successivi [3].
Questa sottolineatura è una rottura con la mentalità del tempo in cui tali testi sono stati redatti: la donna non dev’essere confusa con gli animali, di cui l’uomo è padrone, e la relazione fra uomo e donna non può essere improntata sul possesso, come altri passi biblici potrebbero erroneamente indurre a pensare [4].
L’espressione “ un aiuto che gli sia simile” non rende la profondità dell’originale ebraico: l’uomo ha bisogno di aiuto per uscire dall’isolamento esistenziale e può trovarlo solo in un essere “che gli stia davanti” (questa la traduzione che appare più appropriata), cioè che possa stargli di fronte e guardarlo negli occhi senza abbassare lo sguardo, come un essere assolutamente alla pari nella dignità e nelle facoltà psicofisiche, col quale si possa entrare in un dialogo profondo [5].
Ecco la donna.
Anche in questo è possibile ravvisare una profonda rottura del Giudaismo, e quindi del Cristianesimo, rispetto alla considerazione che si aveva in quell’epoca della donna, ravvisabile per esempio nei miti dei popoli antichi: “come un oggetto misterioso finalizzato alla soddisfazione del maschio o alla riproduzione di altri schiavi per gli dèi o come una attrazione fatale colpevole di portare l’uomo sulla strada sbagliata” [6].
Da notare che queste e altre visioni svalutanti la dignità della donna, appartenenti al paganesimo, sono state e sono ancora attribuite al Cristianesimo e alla Chiesa, con buona pace del testo biblico, della Tradizione, del Magistero e dei testi liturgici (basti pensare alle benedizioni e orazioni del matrimonio ebraico e cristiano) che da esso si sono propagati nel corso dei secoli e che sono e saranno per sempre testimoni autentici della verità.
Nel prossimo articolo approderemo alla famosa “costola di Adamo”, tanto nota quanto tristemente e lungamente fraintesa.

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[1] Cfr. https://www.simoneventurini.com/non-e-bene-che-luomo-sia-solo/
[2] G. Cappelletto, In cammino con Israele. Introduzione all’Antico Testamento – I, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, pag. 139.

[3] “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta essa/è carne dalla mia carne/e osso dalle mie ossa./La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta»”. Genesi 2, 21-23.
[4] Per esempio: “Non desiderare la casa del tuo prossimo./Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Esodo 20, 17.

[5] Cfr. Cappelletto, pag. 139.

[6] Ibidem, pag. 138.

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Ottava Riflessione

Non ci sono forse Io qui, Io che ho l’onore di essere tua Madre? Non sei forse tu sotto la Mia ombra, la Mia protezione? Non sono Io la fonte della tua gioia? Non sei tu sotto il Mio manto, nel Mio abbraccio? Hai bisogno di altro, oltre a questo?

La Madonna ha pronunciato queste parole estremamente consolanti a Juan Diego in un momento profondamente doloroso. Juan Diego ha mancato nel corrispondere alla Sua richiesta, e suo zio, Juan Bernardino, che amava molto, era prossimo a morire.
La Tradizione di Santa Madre Chiesa ci rammenta come la Madonna non fosse estranea alla sofferenza: la Chiesa indica sette dolori particolari di Maria, e la preghiera del Rosario ci porta alla contemplazione dei cinque Misteri Dolorosi, in cui Ella ha partecipato con tutto il Suo cuore.
Noi sappiamo che anche Suo Figlio, Nostro Signore, ha patito grande sofferenza. Leggiamo nelle Scritture che Gesù ha pianto su Gerusalemme, ha pianto per la morte di Lazzaro, ha sudato sangue nel Giardino del Getsemani. Sappiamo pure, negli studi della parola di Dio dei Padri della Chiesa, che Cristo ha subíto tutto il peso del dolore per i nostri peccati durante la Sua Passione e Morte.
Non eluderemo mai il dolore in questo mondo: la Madonna, infatti, ha seguito alla perfezione la volontà di Nostro Signore, e Lei pure fu afflitta da dolori che non possiamo immaginare. Ma non dobbiamo mai lasciare che questa sofferenza diventi paura, né disperazione.
Dobbiamo abbracciare il dolore come opportunità per crescere nella vicinanza a Cristo, per offrire le nostre sofferenze e dunque unire le nostre vite più strettamente alla Sua. Non è forse Lui ad insegnarci che, per essere una cosa sola con Lui, dobbiamo prendere la nostra croce ogni giorno e seguirLo?
E se il dolore in questo mondo cresce al punto da credere di non poterlo sopportare, non dobbiamo esitare, neanche per un istante, a gridare alla nostra Beata Madre, che non mancherà di tenerci al sicuro “sotto il Suo manto, nel Suo abbraccio”.

Preghiamo…

Tutte le meditazioni della Novena a Nostra Signora di Guadalupe

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