Il Pensiero Cattolico

12 Marzo 2025

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Mario Mascia

Società tecnocratica: tendenze di un mondo anticristiano

Una accurata visione sulla realtà attuale rivela una tendenza allarmante sullo sviluppo di una società tecnocratica indice di un progresso ed una esaltazione inconsueta della scienza e della tecnologia, tendente a indebolire la consistenza etica e spirituale della civiltà umana.

La propensione al mancato riconoscimento di Dio causa e fine di qualunque realtà esprime i tratti di un modello anticristiano, teso a rendere la persona un ingranaggio meccanicistico produttivo. Questa tendenza tecnocratica non è un carattere prevalente della modernità, seppure in questo tempo appare quasi invadente. Il sociologo Jacques Ellul considera il “sistema tecnico” come una struttura che divora la dimensione umana, trasformando la cultura in un insieme di processi standardizzati.
Attualmente è riscontrabile una espansione capillare del processo tecnologico: evidente nella robotizzazione di fabbriche, intelligenza artificiale o algoritmi che guidano i mercati finanziari, oltre a un controllo sociale accentuato e l’emergere di una “prassi di calcolo” che vuol mettere in secondo ordine la coscienza e la libertà individuale.
A tal proposito viene citato quanto il filosofo e saggista israeliano Yuval Noah Harari ha evidenziato che l’abbondanza di dati raccolti e le potenzialità dell’analisi predittiva può orientare preferenze scelte, così da determinare una società in cui l’essere umano è sempre più influenzato da processi digitali e automatizzati. Andando oltre ad una analisi sociologica il magistero della Chiesa ha denunciato i pericoli di un modello tecnocratico come evidenziato in “Laudato si” di Papa Francesco. La critica non è rivolta a screditare la tecnologia ma mettere in luce la distorsione che avviene quando la scienza risulta fine a sé stessa, inducendo la persona a logiche di efficientismo e controllo.
Gli studi psicologici e sociologici pongono in risalto che un abuso di strumenti digitali può causare l’isolamento, l’iperconnessione e un progressivo distacco dai valori trascendenti. Sotto il profilo dell’etica, il dramma viene evidenziato nel tentativo di sostituire l’uomo, concepito quale essere razionale con l’uomo costruito, secondo la logica del transumanesimo.
In alcuni settori di ricerca si prospetta la fusione tra biologia e tecnologia mirante a elevare il potenziale dell’essere umano e superarne i limiti. Se da un lato questa possibilità pone interrogativi allettanti, dall’altro espone il rischio verso la post-umanità svincolata dal progetto Divino.
A tal proposito Wesley J. Smith esperto in bioetica prospetta una nuova religione secolare, in cui l’uomo di fa dio di sé stesso col pretesto arrogante di auto-progettarsi in maniera illimitata, rimuovendo la dimensione dell’anima e relativizzando la legge morale naturale.
Pertanto, alcuni osservatori cattolici e laici, come il filosofo della scienza Evandro Agazzi, pongono in rilevo l’imprescindibile esigenza di un controllo etico sui mezzi tecnici, in base al quale va rimarcato la funzione positiva di una “scienza con coscienza”. Diversamente la scienza rischia di divenire uno scientismo così da ridurre la realtà solamente verificabile in laboratorio evitando ogni prospettiva trascendente. In questo contesto il messaggio cristiano diventa scomodo perché conferma che la ragione non è onnipotente e che ogni forma di progresso deve essere indirizzato al bene comune, salvaguardando la dignità della persona. La modernità priva di valori certi può giungere a una deriva, in cui la tecnologia viene configurata come idolo.
La diffusa digitalizzazione dei servizi si orienta verso sistemi di riconoscimento biometrico, sorveglianza massiva e intensi controlli con l’obiettivo di migliorare l’efficienza e la sicurezza. Alcuni scienziati e ricercatori di prestigiose università (come MIT e Stanford) mettono in guardia sulla deriva di un uso eccessivo dell’intelligenza artificiale e di una enormità di dati, che renderebbe irrisoria la privacy e sminuire la libertà d’iniziativa.
La conseguenza di questa abnorme invasione procura un crescente appiattimento dei valori tradizionali e un vanificare i principi cristiani della sussidiarietà: in una società in cui imperversa un controllo capillare, si sminuisce la sfera del privato e la responsabilità personale, a favore di un controllo centralizzato o di oligarchie economicodigitali. Un tale modello di mondo, che degrada la dimensione spirituale e ridimensiona il senso del sacro, viene configurato come fondamentalmente anticristiano. In senso dottrinale la persona viene creata a immagine di Dio quale perno intorno al quale ruotano le strutture sociali. Per contro, la logica tecnocratica volge a strumentalizzare la persona, riducendone la libertà a semplice scelta di consumo, e il suo valore viene stimato in termini di utilità immediata, produttività o rispetto delle regole imposte.
La citazione del vangelo secondo Giovanni, (Gv 8,32) “la verità vi farà liberi”, riecheggia quale monito rivolto a colui che rischia di dimenticare che la vera libertà scaturisce dal riconoscere la Verità in Cristo, e che ogni innovazione, per essere autenticamente umana, deve rispettare la “legge di Dio scolpita nel cuore” (Rm 2,15). Considerando queste prospettive, è quanto mai urgente un rinnovamento culturale, che riprenda il primato della persona e del suo destino eterno, senza rifiutare i frutti positivi della scienza.
Diversi studi cattolici – (tra cui il teologo Antonio Livi e il filosofo Rémi Brague) – richiedono di ridefinire il concetto di progresso, richiamando che la vera grandezza della civiltà non consiste nella elaborazione di mezzi tecnologici potenti, ma nel saper orientare ogni scoperta al bene dell’uomo. Una visione equilibrata suggerisce la necessità di un accordo tra scienza e fede, poiché solo un orientamento rispettoso della natura dell’uomo aperto al Trascendente può evitare di regredire in forme di neopaganesimo scientifico.
Accertato che non bisogna esecrare la tecnologia, è necessario vigilare sui suoi abusi, soprattutto in un mondo in cui lo sviluppo dei processi innovativi può sfuggire a ogni controllo. La pretesa di imparzialità e autosufficienza della tecnocrazia è rivolta a scontrarsi con l’inquietudine del cuore umano, che anela e richiede un senso più alto.
A tal punto, la Chiesa, con la sua tradizione di sapienza e dottrina sociale, è tenuta a denunciare gli aspetti devastanti di questo modello e di prospettare un profondo percorso nella fede, nella carità e nella dignità irrinunciabile di ogni uomo. Il presupposto di un mondo in rapida trasformazione rischia di demolire l’eredità cristiana in una marea di dati e algoritmi, la certezza della risposta resta nella missione di riconoscere il primato di Dio e la verità dell’uomo, contro ogni tentazione di ridurlo a un semplice prodotto della tecnica. Nella sfida attuale risiede l’occasione della testimonianza: proclamare la centralità di Cristo e del Vangelo come criteri supremi per un autentico sviluppo dell’umanità.

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Don Nicola Bux

Dal ciclo di catechesi sui Novissimi: “Le cose dell’Altro Mondo”

Il rifiuto della salvezza che Dio offre all’uomo, mediante lo Spirito Santo

Gesù ha detto che tutti i peccati saranno perdonati, ad eccezione di quello contro lo Spirito Santo. Per sviluppare questo tema, attingiamo in particolare, dall’enciclica Dominum et Vivificatem di Giovanni Paolo II. Al numero 45, il Papa fa notare che la coscienza dell’uomo compie generalmente una fatica in merito alle valutazioni da fare e alle decisioni da prendere.  Convive, inoltre, con i rimorsi di coscienza, che non lasciano mai tranquilli (ricordate tutti l’esempio dell’Innominato del Manzoni)…

Possiamo, quindi, affermare che la nostra volontà porta in sé una ferita; è orientata al bene, ma tende al male. Tuttavia, lo Spirito Santo entra nel nostro intimo con la Sua luce e con la Sua forza, permettendo che i meccanismi della coscienza, pian piano, si distendano e si formino. Occorrerebbe spiegare bene questo concetto ai ragazzi che si preparano alla Cresima, per far loro capire che quanto più ci si apre alla luce spirituale, tanto più la nostra coscienza diventa capace di operare per il bene e di essere aperta al perdono, verso noi stessi e verso gli altri.
Tutto ciò è mirabilmente sviluppato da Sant’Agostino, il santo che, per esperienza personale, ha saputo analizzare bene la coscienza, definendola come un abisso. Infatti, se abisso significa profondità, non possiamo negare che il cuore dell’uomo sia proprio un abisso; ognuno di noi può essere conosciuto attraverso le azioni e i discorsi, ma nessuno può penetrare il nostro pensiero ed entrare nel profondo del nostro cuore. Ed è proprio in questo ambito, che si pone il peccato contro lo Spirito Santo, inteso come rifiuto della salvezza da parte di Dio.
È il caso del traditore Giuda che si è dannato, perché riteneva impossibile ricevere il perdono, a seguito di ciò che aveva compiuto. Allo stesso modo, è anche grave l’altra posizione che va tanto di moda oggi, quella, cioè, che ritiene di potersi salvare senza merito, perché “il Signore è buono e perdona tutti…”
Invece, sappiamo che la salvezza per l’uomo, è avvenuta solo grazie al sacrificio supremo di Cristo e nessuno può immaginare la sofferenza provata da Gesù durante la Sua passione e croce … Per questo, la Messa ha un valore altissimo, perché ripresenta al Padre il sacrificio del Figlio, che può ottenere tutto dal Padre.
“ Chi rifiuta lo Spirito Santo rimane nelle opere morte, perché non vuole raggiungere le fonti della redenzione, che sono sempre aperte”.
La funzione della Chiesa nel mondo è quella di richiamare sempre l’uomo al senso del peccato e alla grandezza della grazia di Dio, perché, da quando Cristo ci ha salvati con la sua croce, non c’è peccato che non possa essere perdonato, salvo l’ostinazione a rifiutare questa salvezza. E’ questo il più grande aiuto che possiamo dare ad una persona, agendo in modo discreto, non ossessivo, ma coraggioso, lasciando il tempo affinchè Dio possa operare in lui con l’azione salvifica dello Spirito.
Dopo un rifiuto iniziale, un cuore indurito può essere roso dal tarlo dell’insoddisfazione, come avvenne per l’Innominato, quando Lucia gli disse:
“ Il Signore perdona tante cose per un’opera di misericordia …”
Occorre diventare più certi di questa azione dello Spirito, poiché viviamo in un tempo dove i maestri sono assenti e i giovani sono portati alla rovina. Nel suo discorso di addio, Gesù ha unito tre àmbiti del «convincere», come componenti della missione del Paraclito: il peccato, la giustizia e il giudizio. Essi segnano lo spazio di quel mistero della pietà, che nella storia dell’uomo si oppone al peccato, al mistero dell’iniquità. La Chiesa, di continuo, innalza la sua preghiera e presta il suo servizio, perché le coscienze non si abbassino verso il polo del peccato, ma piuttosto si elevino verso l’amore.
Coloro che si lasciano «convincere quanto al peccato» dallo Spirito Santo, si lasciano anche convincere quanto «alla giustizia e al giudizio».
Lo Spirito di verità, che aiuta gli uomini a conoscere la verità del peccato, al tempo stesso fa sì che conoscano la verità di quella giustizia che entrò nella storia dell’uomo con Gesù Cristo. Questa è la giustizia che opera la purificazione della coscienza, mediante il sangue dell’Agnello. È la giustizia che il Padre rende al Figlio ed a tutti coloro, che sono uniti a lui nella verità e nell’amore. In questa giustizia lo Spirito Santo, Spirito del Padre e del Figlio, si rivela e si rende presente nell’uomo come Spirito di vita eterna.”
Che profondità aveva San Giovanni Paolo II !
Se noi ci sentiamo confermati da queste parole, significa che sono parole vere, cioè permanenti, che non passano di moda, perché corrispondono a quello che il nostro cuore attende e desidera sentirsi dire…

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Luoghi di culto espressione di una forte apostasia generale

Guido Vignelli

Un Magistero senza fondamento tradizionale? Conseguenze ecclesiali di una fuorviante impostazione

1. Tradizione e Magistero: un equivoco pericoloso

La Divina Rivelazione ci viene da due fonti: la Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura. La Sacra Tradizione è fonte primaria e dinamica della Rivelazione, perché trasmette l’intera Rivelazione lungo la storia della Chiesa; la Sacra Scrittura invece è fonte secondaria e statica della Rivelazione, perché raccoglie le testimonianze scritte della Fede. Pertanto, la Tradizione è antecedente e superiore alla Scrittura.
La Sacra Tradizione conserva fedelmente e trasmette coerentemente l’esempio e l’insegnamento del nostro divin Redentore, come fu ricevuto visibilmente e oralmente dagli Apostoli e poi tramandato dai vescovi loro legittimi successori . Essendo la Divina Rivelazione terminata con la morte dell’ultimo Apostolo, sia la Scrittura che la Tradizione hanno bisogno di essere chiarite, precisate, interpretate e approfondite.
Questo ruolo spetta al Magistero ecclesiastico divinamente instituito; esso però non è fonte della Rivelazione né padrone della Parola divina, ma ne è solo l’autorevole custode incaricato di trasmetterla, esplicitarla, chiarirla e definirla.
Per questo si dice che il Magistero è regola prossima, ma non remota (ossia ultima) della Fede. Il sommo sant’Agostino ci fornisce una precisazione utile al riguardo: «Si è nella vera Fede solo se si professa ciò che la Chiesa universale ha sempre professato e che non proviene da un Concilio, ma dalla Tradizione degli Apostoli».
Questa tesi è confermata dal Concilio Ecumenico Vaticano II: «Il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma ne è solo servitore in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente insegna la Parola divina e da questo unico deposito della Fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».
Insomma, «la Chiesa, attraverso il suo Magistero, è autorizzata a trasmettere soltanto questa Rivelazione, non un’altra né qualcosa d’altro. (…) Poiché il Magistero non è prima né al di sopra della Parola di Dio, ma solo al suo servizio, esso non è mai autorizzato a interferire sulla continuità oggettiva della Parola detta e scritta. (…) La sua stessa continuità è legata al suo compito dichiarativo, protettivo e diffusivo di codesto valore; se venisse meno a tale compito, se si sostituisse all’oggettività della divina Parola, se presumesse di fondersi con essa, cesserebbe immediatamente di essere sé stesso».
Il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa che la Sacra Tradizione non s’identifica con quelle tradizioni ecclesiastiche che costituiscono le numerose e mutevoli forme in cui essa si esprime adattandosi alle esigenze culturali richieste dalla storia e dalla geografia.
Tuttavia, bisogna rilevare che queste forme tradizionali derivate possono, e talvolta devono, essere rispettate perché, se vengono cambiate, si rischia di colpire quella “tradizione eterna” da esse veicolata nel tempo e nello spazio. Bisogna abolire solo le opinioni e usanze umane che ostacolano o falsificano la Verità rivelata e la santificazione, come quelle giudaiche avversate da Gesù stesso (Mt 15, 1-9).

2. Il paradosso di un Magistero non tradizionale

L’attuale situazione è tale, che spesso il cristiano ignora non solo il valore concettuale ma anche il significato linguistico dei vocaboli che esprimono i fondamenti della Fede. Ad esempio, oggi «la Tradizione (…) si espone al rischio di contraccolpi spiacevoli, in ragione della insufficienza o della equivocità di formule inadeguate e forse perfino ingannevoli e fuorvianti».
Infatti, si è diffuso un concetto di Tradizione che risulta… non tradizionale. Secondo molti filosofi, la Tradizione non è più intesa innanzitutto come contenuto di verità. Leggi e cerimonie oggettivamente valide, ma è ridotta a contenitore di opinioni, regole e pratiche soggettivamente valide che si evolvono sostanzialmente per opera di fattori storici, psicologici o sociologici che impongono le loro esigenze alla vita sociale.
Inoltre, secondo alcuni teologi, la Tradizione si fonda non sulla sua origine trascendente ed eterna, ossia sull’autorità di Dio rivelante, ma sul suo strumento immanente e storico, ossia sul Magistero ecclesiastico, inteso come fonte primaria della divina Rivelazione, come regola “regola che misura tutto e non è misurata da nulla”, nemmeno dalla Tradizione.
Data questa impostazione, l’autorità ecclesiastica non si limita più a trasmettere fedelmente divina Rivelazione ma pretende di adeguarla creativamente, ossia di manipolarla a proprio assoluto arbitrio, al fine di adattarla alle attese dei tempi e all’esigenze dei luoghi. Di conseguenza, l’autorità ecclesiastica pretende di avere l’indiscutibile diritto di decidere che cosa è o non è tradizionale nella Chiesa, che cosa ieri lo era ma oggi non lo è più, valutandone il valore secondo i “segni dei tempi” che manifestano le “richieste della Storia”.
Si prospetta quindi, da una parte, un paradossale Magistero anti-tradizionale che ha diritto di ammodernare la divina Rivelazione, dall’altra parte, una Tradizione e una Scrittura corrette e censurate secondo opinioni e gusti umani. Secondo questa empia pretesa, le verità e le leggi divinamente contenute nella Sacra Tradizione, che sono eterne e immutabili in quanto universali e necessarie, vengono parificate alle tradizioni ecclesiali, ossia a quelle opinioni e usanze che sono inevitabilmente mutevoli e contingenti, in quanto temporaneamente e localmente espresse o praticate dagli ambienti culturali secondo le loro esigenze pratiche.
In questo modo, l’unica Tradizione divina viene ridotta alla mutevole raccolta delle molteplici tradizioni umane, per cui l’universale diventa locale e viceversa, l’essenziale diventa accidentale e viceversa, il fine diventa mezzo e viceversa, insomma il fondamento diventa vertice e viceversa. Questo rovesciamento fu denunciato un secolo fa dal cardinale Louis Billot in un suo prezioso libretto anti-modernista.
La Sacra Tradizione si riduce a ideologia che deve giustificare l’autorità ecclesiastica ed elaborare la prassi pastorale, ossia a strumento utile per convincere, unire e orientare i fedeli, per fare in modo che la cieca obbedienza all’autorità ecclesiastica produca la disciplinata compattezza della comunità ecclesiale. L’autorità ecclesiastica diventa quindi autoreferenziale pretendendo di fondarsi su sé stessa, “norma non normata”; il potere posto al servizio della giustizia si rovescia nella giustizia posta al servizio del potere. La saggia massima giuridica “jussum quia justum” si rovescia nell’arbitraria massima “justum quia jussum”, che talvolta viene trasposta nella paradossale formula “credo quia absurdum”.
Come si vede, qui il vecchio errore protestante viene rovesciato. Ieri, la pseudo-riforma luterana riduceva la Tradizione alla interpretazione ecclesiale delle Scritture in funzione delle convinzioni e delle esigenze individuali; oggi invece il neo-modernismo riduce le Scritture alla loro interpretazione fatta dalla Tradizione ecclesiastica in funzione delle convinzioni e delle esigenze sociali.
Pertanto, oggi il depositum fidei viene interpretato e trasmesso da una imprecisata “tradizione ecclesiale vivente” animata dalla vitalità culturale e regolata dalla storia umana, senz’avere più l’obbligo d’insegnare «nello stesso senso e con la stessa sentenza», come ammonì san Vincenzo di Lérins.

3. Alcune conseguenze pratiche di questo falso concetto

Le conseguenze pratiche prodotte da questa falsa impostazione sul governo della Chiesa sono gravissime. L’insegnamento e la vita della Chiesa subiscono una mutazione sostanziale che ne rompe l’ordine, la coerenza e la continuità non solo storiche ma anche dottrinali.
Si realizzerebbe così l’infausto auspicio espresso un secolo fa dell’eretico Bonaiuti: «L’eresia di ieri diventerà la opinione di oggi e verità di domani»; oggi si potrebbe aggiungere che “l’abuso di ieri diventerà l’uso di oggi e la norma di domani”.
La missione della Chiesa finisce ridotta a una pastorale che presuppone il primato della prassi sulla dottrina, della esperienza sull’insegnamento, insomma della vita sulla verità, promuovendo così una eteroprassi che implicitamente e gradualmente favorisce l’eterodossia. Questo pastoralismo deriva dalla “eresia dell’azione”, promossa dal movimento modernista alla fine XIX secolo e oggi ripresa da quel “cambio di paradigma” che in realtà è un rovesciamento di paradigma e che si esprime nell’inquietante modello della Chiesa come “piramide rovesciata”.
Facciamo qualche esempio di questa impostazione riguardante il comportamento contraddittorio recentemente tenuto da una parte considerevole della Gerarchia ecclesiastica nel governare la Chiesa.
Oggi la fondamentale caratteristica che identifica il cristiano non è più la sincera professione della Verità divinamente rivelata, ma è semplicemente la pratica obbedienza ai legittimi Pastori. Decenni fa, un vescovo italiano si permise di sentenziare che «il fondamento della Fede è la sottomissione al proprio vescovo», suscitando così lo sconcerto dei commentatori.
Oggi si esalta il dubbio, la critica e la contestazione, si relativizza tutto anche in campo ecclesiale; eppure, si condanna e si reprime come integrista, passatista o “indietrista” un’affermazione drastica richiesta dalla santa dottrina o dalla sana morale cristiana.
Oggi si tollera o perfino si approva il fare scelte che negano una verità di Fede o di morale; eppure, si rifiuta come intollerabile o perfino illecito il criticare l’ultimo pronunciamento sinodale o l’ultimo piano pastorale varati da una qualche autorità ecclesiastica o commissione diocesana. Oggi si tollera o perfino si approva un insegnamento o una cerimonia liturgica o una rappresentazione artistica che contraddicono o profanano le cose sacre; eppure, si ostacola o perfino si reprime un tentativo di ripristinare l’insegnamento o la liturgia o l’arte conformemente alle più antiche e venerabili tradizioni della Chiesa.
Oggi, se qualcuno insegna opinioni o commette azioni che colpiscono l’integrità della dottrina o la purezza della morale, lo si compatisce come caso di “fragilità” o perfino lo si giustifica come manifestazione di “pluralismo ecclesiale”, ossia in nome dei diritti delle minoranze. Al contrario, se qualcuno denuncia una eresia o una empietà o un abuso commesso, oggi si tende a ostacolarlo o perfino a condannarlo per attentato all’unità ecclesiale, ossia in nome dei diritti della maggioranza.
Insomma, oggi si attua la paradossale pratica per cui, quando avviene un incendio, si rimprovera e si punisce non i piromani che lo hanno acceso ma i pompieri che tentano di spegnerlo. Si applica così una famigerata e perversa massima di malgoverno: “essere debole con i forti ma forte con i deboli”.
Come si vede, non solo nel settore politico ma anche in quello ecclesiale, un’autorità priva di potere arretra di fronte un potere privo di autorità. Di conseguenza, l’autorità legittima non riesce a ristabilire l’ordine perché evita di reprimere gli abusi, mentre il potere abusivo riesce a imporsi perché si approfitta della complicità e della impunità di cui gode.

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Don Nicola Bux

Dal ciclo di catechesi sui Novissimi: “Le cose dell’Altro Mondo”

Il Purgatorio

Il peccato del mondo occidentale contemporaneo è quello di voler stravolgere la natura dell’uomo, non riconoscendola originata e regolata da un Dio creatore. Questo dà origine a tutte le rivoluzioni moderne, dal transumanesimo, alla cultura Woke, ecc…

E’ evidente che l’uomo non può programmarsi da sé, perché egli nasce in una realtà che lo precede e quindi, non può modificare la sua natura o, peggio ancora, distruggerla. Purtroppo, siamo in balia di chi orienta pesantemente il nostro modo di pensare e agire, così che la maggioranza delle persone, soprattutto giovani, vive senza dare un senso alla propria vita. Inoltre, si nega il principio del merito, premiando anche coloro che sono più incapaci (ricorderete tutti il famoso “sei” politico degli anni ‘60…). Di conseguenza, è ancora più difficile, far riflettere sulle domande che riguardo ciò che avviene alla fine della nostra esistenza, sul giudizio, sulla ricompensa o la pena eterna.


Di seguito, ci soffermiamo sui riferimenti dottrinali, riportati nel Compendio del catechismo (art 208, 210, 211, 214), in merito al giudizio particolare che avviene subito dopo la morte, quando le anime si trovano davanti a Dio e sono giudicate in base alle opere compiute in vita. Questa fase di purificazione intermedia, chiamata Purgatorio, è necessaria perché l’espiazione per un male compiuto è un atto che, in coscienza, tutti sentono giusto e doveroso; nessuno di noi, infatti, tollererebbe che l’assassino e la vittima ricevessero la stessa ricompensa. Oggi, erroneamente, si tende a presentare un Dio buonista, che minimizza ogni male. Tuttavia, il Signore, oltre ad essere profondamente buono, è anche altrettanto giusto; per questo, ha previsto che ogni pena debba essere espiata, sebbene la persona pentita sia morta in grazia di Dio.

Dall’ art. 1031 si deduce che certe colpe possono essere rimesse anche nel tempo della vita: “ La Chiesa chiama purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati. Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità, afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro (Mt 12,32 ). La dottrina sul Purgatorio è stata resa esplicita nei concili di Firenze e di Trento, ma già nelle scritture si parla di un fuoco purificatore. La parola “fuoco”, non va intesa nel senso materiale, ma come una forza capace di togliere all’uomo ogni possibile impurità, perche’ la visione di Dio non è consentita a coloro che sono impuri. Questo è un concetto presente anche in altre religioni; infatti i musulmani praticano diversi riti nel lavarsi prima della preghiera e anche noi ci bagniamo con l’Acqua benedetta quando entriamo in Chiesa e soprattutto quando usiamo l’acqua nel rito del Battesimo, sacramento della purificazione. Perciò, se a livello corporale abbiamo bisogno di una doccia quando ci sentiamo sporchi, così a livello spirituale, sentiamo la necessità di un’espiazione, quando la coscienza ci rimprovera per un male commesso.

Art. 1032: “Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti, di cui la Sacra Scrittura già parla: « Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato ». Qui si fa riferimento all’episodio della battaglia dei maccabei, quando nel seppellire i soldati ebrei, Giuda si accorse che essi, sotto le corazze, portavano degli amuleti pagani. Allora, per espiare la colpa dei suoi compagni, fece fare una colletta di migliaia di dracme. Da qui, il significato di suffragio inteso come “ spinta”, movimento, per la purificazione delle anime, affinchè esse possano presto vedere Dio, che è l’appagamento supremo di ogni desiderio. Anche la Chiesa, fin dalle origini, ha onorato la memoria dei defunti, offrendo per loro suffragi con preghiere specifiche, in particolare, con il sacrificio eucaristico. Sono raccomandate anche le elemosine, le opere di penitenza e le indulgenze. Il pellegrinaggio, che significa mettersi fisicamente in cammino con animo contrito e penitente, rappresenta il distacco dalle nostre normali abitudini e certezze. Fino al 1300, quando i viaggi erano molto rischiosi, si usava arrivare pellegrini in Terra Santa, ma quando queste terre furono occupate dai musulmani, Papa Bonifacio VIII, indisse il primo anno Santo, che prevedeva il pellegrinaggio fino a Roma. Ad oggi, la Chiesa, che è molto misericordiosa, permette di lucrare le indulgenze anche in luoghi diversi accessibili a tutti (santuari, cattedrali, ecc …) Per ottenere l’indulgenza occorre accostarsi alla confessione, alla comunione, recitare le preghiere indicate e compiere degli atti di carità. Tra noi e le anime del Purgatorio c’è una circolarità di meriti, in quanto partecipiamo tutti alla vita della Chiesa e alla comunione dei Santi.

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Mario Mascia

Revisionismo epocale prospettive laceranti nella chiesa sinodale

Il sinodo dei vescovi è stato concepito quale organo consultivo nel contesto del Concilio vaticano II su istituzione del Papa Paolo VI. I vescovi componenti il sinodo assumono un ruolo consultivo sui temi riguardanti la Chiesa universale. La relativa istituzione risale al motu proprio di Paolo VI Apostolica Sollicitudo nel 1965. Secondo i principi istituzionali i vescovi sinodali sostengono il Papa proponendo consigli o suggerimenti riguardanti la fede, i costumi, la disciplina ecclesiastica e la missione della Chiesa universale. La proposta dei temi nasce da una consultazione collegiale che coinvolge Patriarchi, conferenze episcopali, Superiori dei Dicasteri della Curia Romana e l’Unione dei Superiori Generali.

I temi trattati hanno una rilevanza universale, pastorale, dottrinale. I temi finora esaminati hanno interessato: il sacerdozio, la figura del vescovo, la vita consacrata, la vocazione dei laici, la famiglia, i giovani, l’evangelizzazione nel mondo moderno, il catechismo, il perdono, l’Eucaristia, la Parola di Dio, oltre ad affrontare la situazione delle Chiese particolari nelle diverse regioni del mondo.
In seguito alla consultazione collegiale il Papa assume la decisione sulla scelta del tema. Una voce autorevole ha offerto una immagine eclatante della visione prostetica della Chiesa sinodale.
Il cardinale Gerhard Ludwig Müller, che è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha dato seguito in un articolo del 6 novembre 2023 nel quotidiano “Il Giornale” a dei pronunciamenti inequivocabili sui cambiamenti nella Chiesa sinodale In un colloquio con IlGiornale.it.
Sui lavori sinodali tenutisi nel 2023 ha dichiarato “Mai avrei consigliato al Papa di scegliere un tema così. Che vuol dire? Già di per sé il Sinodo è un concetto astratto. È un po’ come fare un’assemblea sull’ assemblearità. Per me non ha un grande senso”. “Il Papa non è il proprietario della Chiesa”.
L’esito del primo lavoro del sinodo consiste in una sintetica relazione sui temi del diaconato femminile, identità di genere, intercomunione, abolizione dell’obbligo del celibato sacerdotale. La maggior parte dei partecipanti che hanno collaborato all’esame dei temi hanno espresso un voto contrario, ma i paragrafi del documento sono stati approvati in maggioranza.
Sulla scorta di una diffidenza che i vescovi rappresenterebbero un parlamento, i voti dei vescovi di un concilio o di un sinodo non rappresentano la volontà popolare in quanto si esprimono solo come testimoni della verità. Sul peso delle votazioni grava la partecipazione dei laici in contradizione con l’istituzione originaria del sinodo concepito come Sinodo dei vescovi istituito per lasciar partecipare i vescovi al governo della Chiesa universale sulla base della loro ordinazione.
A rendere ancora più controverso il lavoro sinodale sono stati gli interventi dei laici che, sebbene presenti in rappresentanza del popolo di Dio, non sono stati eletti ma selezionati dalle conferenze episcopali e poi scelti dal Papa in persona. Un altro aspetto dirompente sulla sinodalità è la posizione del padre James Martin per la sua posizione perorante la causa Lgbtq+ nella Chiesa così da sconfessare la dottrina cattolica.
Una abissale perplessità scaturisce dall’invocazione dello Spirito Santo dei partecipanti al sinodo per giustificare concessioni dottrinali arbitrarie come l’ordinazione del diaconato alle donne stravolgendo l’insegnamento della Chiesa con un’ideologia ostile alla rivelazione e con la tirannia del relativismo.
Per dirimere gli equivoci degli opinionisti modernisti, che intendono stravolgere la verità conclamata nell’insegnamento della tradizione apostolica, resta il compito dirompente del cristiano autentico di spezzare ogni perplessità e denunciare l’intrusione nella Chiesa di propositi modernisti intrisi di mondanità e di un falso intellettualismo. Gli spiragli sono aperti per proclamare la missione della Chiesa rivolta ad insegnare, a santificare e a governare.

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Don Nicola Bux

Dal ciclo di catechesi sui Novissimi: “Le cose dell’Altro Mondo”

Giudizio particolare dell'anima e quello universale alla fine dei tempi

Il secondo termine dei Novissimi, cioè delle ultime cose che attendono l’anima di ogni uomo alla fine della vita, è il giudizio di Dio (Catechismo, art.134 e 135). Sia nel credo degli apostoli che in quello più completo niceno-costantinopolitano, si afferma che Cristo, a conclusione della storia umana, verrà a giudicare i vivi e i morti.

E’ interessante notare che anche gli ebrei e i musulmani credono nel giudizio universale; infatti, ancora oggi usano seppellire i loro morti ai piedi del Monte degli Olivi, dove è stabilito il luogo in cui avverrà il giudizio finale e tutti risorgeranno. Per noi cristiani, gli uomini saranno giudicati da Cristo, perché solo Lui è venuto a salvarli, passando attraverso la croce. Lì, sulla croce, ha sintetizzato tutta la sofferenza del mondo, assumendola su di Sé, perciò, col potere che ha acquisito come Redentore, giudicherà gli uomini  nei segreti dei loro cuori. Dopo l’ultimo sconvolgimento del mondo, ogni uomo, a seconda delle sue opere, sarà colmato di vita o dannato per l’eternità.  Al nr. 205, si legge che “Il corpo, a conseguenza della morte, cade nella corruzione, mentre l’anima che è immortale, va incontro al giudizio di Dio e attende di ricongiungersi al corpo che risorgerà trasformato, al ritorno del Signore”. Si parla qui del giudizio individuale, particolare. Tra i due estremi che sono l’inferno e il paradiso, c’è ancora una possibilità di purificazione, in quello stato che viene chiamato Purgatorio. Per evitare ciò, è molto importante essere sempre in grazia di Dio, accostarsi frequentemente alla confessione e lucrare le indulgenze, che ci liberano dalle pene accumulate con i peccati. L’art. 205 conclude: “Comprendere come avverrà la risurrezione, supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto”. Sappiamo che  Cristo ha compiuto la risurrezione in Sé stesso, perciò, si può tranquillamente pensare che chiunque vive e crede in Lui, sarà risuscitato nell’ultimo giorno. Per questo, noi abbiamo al centro della nostra fede la Pasqua, che è appunto la risurrezione del Signore. Al nr. 207 si afferma che“La vita eterna inizierà subito dopo la morte. Essa non avrà fine. Sarà preceduta per ognuno, da un giudizio particolare ad opera di Cristo e sarà sancita dal giudizio finale.” . Tuttavia, per noi cristiani, la vita eterna comincia già col battesimo, perché in questo sacramento riceviamo la vita di Cristo e la Sua grazia, sebbene contenuta in vasi di creta. Quando, a volte, mi prende la paura della morte, mi rassereno pensando che, se certamente il mio corpo dovrà morire, la mia anima, che è la parte più importante di me stesso, non morirà mai. Sarà per noi come l’esperienza di cambiare un abito, passando da uno, invernale, ad un altro, estivo…  Gesù ha detto: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde sé stesso?” Se l’anima è immortale, dobbiamo fare molta attenzione alle opere che compiamo, ai nostri affetti, a tutto ciò che costituisce il bagaglio con cui arriveremo davanti al Signore.

Nell’art. 208 viene spiegato che “ il giudizio particolare riguarda la retribuzione immediata che ciascuno, dopo la morte, riceve da Dio nella sua anima immortale. Tale retribuzione consiste nell’accesso alla beatitudine del cielo, immediatamente o dopo un’adeguata purificazione, oppure alla dannazione eterna nell’inferno”.

Ecco, chiudendo gli occhi in questo mondo, li apriremo immediatamente davanti a Dio e questa sarà una visione beatifica, che annullerà ogni altro desiderio, perché Lui è la risposta a tutti i desideri dell’uomo. Se dedichiamo del tempo a Dio, per esempio, trascorrendo un’ora in preghiera, in adorazione, andando in chiesa, o stando a contatto con la natura, la nostra anima sarà rinfrancata e si avvicinerà sempre di più al Signore. Anche Gesù andava sulla montagna; infatti, i monti avvicinano al cielo, dove diventa più vivo il desiderio di Dio. L’art. 214 spiega che ”Il giudizio finale o universale consisterà nella sentenza di vita beata o di condanna eterna, che il Signore Gesù, in qualità di giudice, emetterà a riguardo dei giusti e degli ingiusti. A seguito di tale giudizio, il corpo risuscitato parteciperà alla retribuzione che l’anima ha avuto nel giudizio particolare”.  Ecco finalmente il momento in cui il corpo risuscitato tornerà ad essere unito all’anima. Quando avverrà questo giudizio? Dice il 215: “Questo giudizio avverrà alla fine del mondo, di cui solo Dio conosce il giorno e l’ora”.

Nell’ art. 216, si conclude affermando che “Dopo il giudizio finale, lo stesso universo, liberato dalla schiavitù della corruzione, parteciperà alla gloria di Cristo con l’inaugurazione di nuovi cieli e di una terra nuova. Sarà così raggiunta la pienezza del Regno di Dio, ossia la realizzazione definitiva del Suo disegno salvifico, di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del Cielo come quelle della Terra”. Finalmente, nella vita eterna, Dio sarà tutto in tutti e questa è la conclusione del giudizio universale.

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Mario Mascia

Accidia: dramma, sacrificio e liberazione

Dal convegno tenutosi il 3 gennaio 2025 dal titolo “La noia nel cattolicesimo nemico tramite e risorsa” presso l’Aula Magna Unikoine ad Oristano

L’operare distaccato e privo di profonde motivazioni, assimilato dall’individuo, può rivelarsi nel tempo mezzo di disincanto e disistima di sé determinando una dicotomia tra i propri talenti, inclinazioni e il frutto dell’attività svolta, che non è propriamente emanazione del proprio essere. Un riprovevole ripiegamento su sé stesso può dare adito alla fuga dalla realtà frustrante e ad un disimpegno da ogni attività origine di responsabilità. Sfuggire da circostante spiacevoli in situazioni senza certezze può determinare la noia, disposizione da cui promana insoddisfazione e abulia che proviene dall’inattività o dal ripetere azioni monotone e inutili.

Una causa emblematica fra tante e mortificanti a cui non sempre è possibile dare risposte salutari e convenienti può configurare una resa ad un approccio risolutivo a fronte di un dilemma al punto da configurare un vuoto motivazionale nelle iniziative progettuali. Lo stato d’animo risulta compromesso verso un progressivo indebolimento della volontà di intraprendere qualsiasi iniziativa. Qualunque inibizione dell’attività psichica e cognitiva può degenerare nell’abulia che giungerebbe in difesa la noia. Un modus vivendi dell’essere caratterizzato da un indifferentismo asettico, inteso in senso figurato, come incapace di suscitare o di subire emozioni, in una posizione di “spettatore neutro” nello scorrere degli avvenimenti di un mondo lontano ed estraneo dagli orizzonti del vivere presente può tradursi in un appiattimento arido in cui è smarrito il senso naturale del vivere.
La noia può essere considerata la corrispondente (dell’acedia) dell’accidia che fin dal medioevo, era un peccato capitale che commettevano coloro, dediti alla vita contemplativa, finivano per cedere nell’inerzia non compiendo il male ma neanche il bene. In senso stretto l’accidia è il peccato capitale meno riconosciuto in quanto così diffuso che si considera normale e perfino accettabile come l’indifferenza.
Il male dell’anima designa la mancanza di interesse verso ogni iniziativa determinando l’abbattimento, la malinconia ed una mancanza di gusto della vita. Nel Rinascimento il sentimento della noia si eleverà per gli spiriti tormentati dei geni e degli artisti, in quello della malinconia, alla quale la cultura occidentale, specie nel Romanticismo, assegnerà il valore di ripiegamento meditativo dell’animo su sé stesso.

Aridità dello spirito

L’accidia risuona nella dottrina cattolica come avversione all’operare fino allo smarrimento delle fede. Il male dell’anima designa una chiusura alla speranza negli episodi della prova che inducono a configurare nell’animo un dissiparsi dell’intento a ricomporre i frantumi dei disegni progettuali attesi ma infranti in una sconfitta. L’accidia rivela la debolezza dell’anima nell’assenza di attrazione, di desiderio della vita svuotata di senso. Alcuni passi biblici ben descrivono lo stato d’animo accidioso:
Presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto, infatti, è vanità e un correre dietro al vento. (Qo 2,17) Una tristezza straziante e diffusa nei confronti della pesantezza del vivere viene espressa in modo lucido ed eclatante dal libro di Giobbe o dal profeta Geremia. In estrema sintesi la filosofia dell’accidioso è espressa nelle famose parole di Qoelet (l’ecclesiaste) quando dice; Vacuità delle vacuità, tutto è vacuità, e quindi sorge il dubbio a che vale impegnarsi?
L’accidioso nella sua ostilità al cambiamento è la rappresentazione della ineluttabilità della morte. I rimedi terapeutici possono essere utili per l’identificazione dei valori per cui vivere e quelli che lo fanno confrontare appunto con la brevità dell’esistenza e l’eternità del nulla. Nella condizione del letto di morte pochi o assenti saranno i rimorsi, e non riusciranno a farsi largo tra la folla dei rimpianti che lo accompagneranno alla tomba sulla cui lapide saranno scritte le due date senza nulla in mezzo. Il male dell’anima è stato oggetto di attenzione da diversi autori come Francesco, Petrarca e Giovanni Cucci.
“Una malattia dell’animo” è un testo ricavato dal “Secretum” scritto da Petrarca per esprimere il dissidio interiore delle due parti della sua anima in conflitto, una parte svolta da Sant’Agostino l’altra da Francesco in un lungo dialogo. Queste parti rappresentano gli ideali di purezza cristiana, il desiderio di gloria, passione, ambizione e amore terreno.
Per esprimere i suoi sentimenti Petrarca usa un linguaggio da guerriero: si sente attaccato come un soldato in battaglia e rivolto a comprendere i motivi che lo hanno portato in battaglia contro l’accidia mediante il dialogo col suo interlocutore. Sant’Agostino, esempio di virtù morale e spirituale, raffigura l’ancora di salvezza in grado di aiutare a vincere.
Petrarca espone le sue idee in modo impetuoso e avvincente, contrariamente alle risposte di sant’Agostino che espone un’analisi razionale. “Come notte d’inferno e acerbissima morte” l’accidia combatte contro l’autore con il suo esercito, mentre cerca di difendersi, ma “il trascorrere dei beni temporali”, “i dolori fisici” e “qualche offesa della troppa avversa fortuna” lo colpiscono con violenza. La consapevolezza del male che lo affligge e lo distingue dagli altri peccati, in cui la discontinuità e l’alternanza lo inebriano con il loro retrogusto, contrariamente alla negativa costanza dell’accidia, non permette di intravedere nessuno spiraglio. Contrariamente dal Petrarca, che parla del vizio capitale come di un sentimento intimo, Cucci nel suo tema, definisce l’accidia un male narcisista di cui soffre la società. Lo stile che utilizza Cucci è diretto e semplice nel riconoscere l’accidia e la depressione l’esito di una mentalità egocentrica e narcisistica formando la persona al centro della realtà. La tesi è suffragata da diversi studi psicologici che rilevano come la depressione e la tristezza si stanno diffondendo in maniera esponenziale nella società occidentale.
La diffusione delle applicazioni tecnologiche non è in grado di compensare la vacuità della vita interiore secondo Cucci, in quanto la tecnologia e l’abbondanza dei beni materiali non potranno garantire la realizzazione di una vita felice. Nella società, di cui siamo partecipi, molte persone soffrono di accidia, senza speranza e capacità di attenzione, la cui distrazione prevarica sulla dedizione alle attività di solidarietà umana o di carattere educativo, per cui la consuetudine consiste nel “lasciar fare” nell’ abbozzare senza mettere in discussione la propria condotta o edificarsi attraverso un percorso introspettivo sul proprio comportamento, proponendo un modello di virtù morali e spirituali.
La diffusione dell’accidia secondo Cucci è dovuta all’amore smodato per sé stessi che porta gli individui a stare prigionieri del proprio io, senza l’intento del miglioramento. Cucci descrive il male come una “morte lenta”, definendola come abitudine, rassegnazione e arrendevolezza di fronte alle difficoltà.
Intanto in Petrarca è presente la volontà di liberarsi dalla dicotomia che alberga in lui; dalle sue opere risulta che sia solo, narciso, in balia dei suoi mali, ma tuttavia disposto a lottare. L’accidia è comunemente adombrata da un falso riconoscimento e difficilmente concepibile come un male che può imperversare nella quotidianità in presenza di afflizioni, inquietudini e affanni; pertanto, è plausibile ricorrere ad un paradigma per cogliere spunti e riflessioni verso criteri di giudizio chiarificatori. La risposta che può ispirare la coscienza può trovarsi nelle opere di misericordia che possono giovare l’indulgenza giubilare.

LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA SPIRITUALE

1 – Consigliare i dubbiosi
2 – Insegnare agli ignoranti
3 – Ammonire i peccatori
4 – Consolare gli afflitti
5 – Perdonare le offese
6 – Sopportare pazientemente le persone moleste
7 – Pregare Dio per i vivi e per i morti

LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA CORPORALE

1 – Dar da mangiare agli affamati
2 – Dar da bere agli assetati
3 – Vestire gli ignudi
4 – Alloggiare i pellegrini
5 – Visitare gli infermi
6 – Visitare i carcerati
7 – Seppellire i morti


Liberazione

Il passo risolutivo del vizio capitale viene ricavato da un brano della pubblicazione “Amici domenicani” del 25 aprile 2020, esposto dal reverendo Padre Angelo Bellon in riposta ad un lettore.
Risposta del sacerdote:

1. Comunemente per accidia s’intende la pigrizia. Bisogna precisare però che si tratta di una particolare pigrizia, quella che si prova nell’amare Dio, nelle cose spirituali. Questa precisazione è importante perché vi possono essere persone attivissime, ma che sono colpite dall’accidia, perché nella vita spirituale sono del tutto prive di fervore e di impegno.

2. Il principale rimedio per combattere l’accidia, che secondo san Tommaso consiste in un vizio contrario alla virtù teologale della carità, consiste in un amore per il Signore più forte e più intenso. E poiché questo amore non dipende esclusivamente da noi perché è di ordine soprannaturale, è necessario domandarlo a Dio. Gesù ha detto: “nessuno viene a me se il Padre non lo attira” (Gv 6,44). Allora bisognerà chiedere insistentemente al Signore la grazia di poterlo amare sempre di più. A tal punto è necessario evocare la bella giaculatoria, che riprende le ultime parole dell’atto di carità: “Signore, fa’ che ti ami sempre più”. Dicono che Giovanni Paolo I la ripetesse frequentemente nei vari andirivieni della giornata.

3. È un’invocazione bella ed efficace. I teologi ci ricordano che, se noi siamo in grazia di Dio e chiediamo a Dio dei beni di ordine soprannaturale, meritiamo quanto chiediamo quasi per giustizia. Il che significa che Dio ce li deve dare. Il motivo non è difficile da comprendere: Dio era libero di adottarci come suoi figli, e cioè di dare a noi tutto quello che ab aeterno (“dall’eternità”) ha dato a suo Figlio Unigenito. Ma dal momento che ha voluto questo, si è in qualche modo obbligato nei nostri confronti. È più o meno quello che capita a due sposi che decidono di adottare un figlio. Sono liberi di farlo. Ma dal momento che lo fanno, si obbligano nei confronti del figlio adottivo e si impegnano a dargli tutto quello che danno ai figli di sangue.

4. A questo punto si rende necessaria una prontezza da parte nostra ad accogliere questo suo dono, che in genere si manifesta con un’ispirazione all’impegno. Questa inspirazione è una grazia. Se la riceverai con fedeltà e con prontezza ti accorgerai ben presto che ad essa ne seguono subito molte altre. La tua vita allora conoscerà una freschezza simile a quella della primavera.

5. In particolare, al dire di san Tommaso, la molla della devozione, e cioè del trasporto e della fedeltà verso il Signore, consiste nella mortificazione, vale a dire nella capacità di fare il bene anche quando ci costa e nel privarci di qualcosa per amore Suo. Si direbbe che, quando Dio vede che lo vogliamo amare con i fatti e che siamo capaci di dimenticarci di noi stessi, subito, come in una gara di generosità, accende in noi in maniera più forte l’amore e la dedizione per Lui.

6. Per vincere l’accidia ci si può autodeterminare, oltre che nel compimento esatto del nostro dovere quotidiano, anche in quello di qualche altra pratica non richiesta. Potrebbe essere un servizio costante fatto per amore di Dio in casa o fuori casa, oppure anche una particolare pratica di pietà, come ad esempio il Rosario tutti i giorni.

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Don Nicola Bux

Dal ciclo di catechesi sui Novissimi: “Le cose dell’Altro Mondo”

La morte: come preparare la nostra e quella degli altri. 

(seconda parte)

La morte è una realtà della nostra vita, perciò è inutile occultarla, come accade oggi nella nostra società occidentale. Di fronte a questo evento, noi cristiani siamo sereni, perché il Signore ci ha promesso che, con Lui, non dobbiamo avere paura di nulla. Sappiamo che la morte dura un attimo, è un passaggio; infatti, la celebriamo soprattutto nella Pasqua, così intesa come passaggio dalla realtà apparente e dolorosa di questo mondo, alla realtà eterna.

A partire da questo Natale, con l’apertura dell’Anno Santo ordinario, si possono ottenere le indulgenze, cioè la remissione delle pene che noi conseguiamo a causa  dei nostri peccati. Si tratta di un atto gratuito, donato dalla bontà di Dio che si ottiene, ovviamente, dopo essersi accostati ai sacramenti della confessione e della comunione.
Il pellegrinaggio e il transito attraverso la porta Santa, rappresentano il segno della fatica che si compie per ottenere questa grazia. Inoltre, le indulgenze si possono applicare anche alle anime dei defunti, che si trovano a scontare la pena temporanea nel Purgatorio.   (Compendio, negli articoli 308, 311 e successivamente, nei 314, 316 e 320).
L’unzione degli infermi è un altro gesto importante da compiere in vista della morte e in caso di  malattia seria. Spesso si amministra anche in previsione di un intervento chirurgico, perché, in quanto sacramento, ha il potere di sollevare fisicamente il malato. E’ un dovere per noi cristiani, chiamare un sacerdote prima che la persona morente abbia perso completamente conoscenza. Infatti, oltre all’estrema unzione, potrà ricevere anche l’Eucarestia sotto forma di viatico, che è il necessario accompagnamento dell’anima nel viaggio verso l’aldilà. Il momento del trapasso è da considerarsi molto delicato, perché, come afferma San Paolo, gli spiriti maligni, presenti fra noi sotto varie forme, sono sempre in agguato per rubare le anime, soprattutto quando esse stanno per lasciare i loro corpi.
A questo proposito, ci sono molte testimonianze, come quella raccontata dal biografo di san Martino di Tours… Ecco perciò, l’importanza, prima di affrontare il distacco dalla vita terrena, di essere cristianamente attrezzati con questi tre Sacramenti, detti anche “conforti religiosi”: confessione, estrema unzione e viatico. 
Ora riflettiamo sui punti 354 e 355 che riguardano le esequie. Nel funerale si chiede al Signore di assolvere in extremis il defunto e di accoglierlo tra le Sue braccia nel paradiso, così, in questa cerimonia sono da evitarsi manifestazioni simili ad uno spettacolo, con tanto di applausi e ridicoli panegirici (bravo il maestro Muti che li ha vietati al suo futuro funerale…). La morte del cristiano si manifesta alla luce della morte e risurrezione di Cristo, nostra unica speranza, perciò nelle esequie raccomandiamo l’anima del defunto a Dio, affinchè giunga presto alla beatitudine del Paradiso. Chiediamo che essa sia purificata dagli ultimi residui del peccato e successivamente, attraverso le messe in suffragio, imploriamo che sia liberata dalle pene del Purgatorio.
La stessa parola Purgatorio significa lo stato in cui si viene purificati. E’ una condizione dura, fortunatamente non eterna, tuttavia, da evitare. Ecco cosa scriveva San Francesco, nel Cantico della creature: “Guai a quelli che moriranno in peccato mortale e beati quelli che la morte troverà in grazia di Dio, poiché la seconda morte (la dannazione divina) non li potrà fare loro alcun male.” 
Nel compendio è importante capire anche i punti 471 e 476.  Riguardo all’eutanasia, il Papa ha ripetutamente affermato che la vita deve essere accompagnata fino al momento della morte naturale, ritenendo lecito l’uso delle cure palliative, ma senza accanimento terapeutico. Invece oggi, purtroppo, assistiamo ad un vero e proprio business che, falsamente, fa credere di agire per il bene del malato, al fine di evitargli lunghe e inutili  sofferenze.
Per questo, se non ci sono più speranze di guarigione e la morte risulta imminente, ritengo poco opportuno far ricoverare i malati, perché in ospedale rischiano di morire da soli; molto meglio tenerli in casa, circondati dall’affetto e dalla preghiera dei loro cari… Importante il punto Nr. 476:” Il trapianto di organi è moralmente accettabile, col consenso del donatore e senza rischi eccessivi per lui. Per il nobile atto della donazione degli organi dopo la morte, deve essere pienamente accertata la morte reale del donatore”.
In conclusione, consiglio di arrivare preparati al momento della morte, come un tempo i nostri anziani ci raccomandavano; loro, addirittura, solevano avere pronti persino i vestiti, in modo tale che tutto si compisse con ordine, senza confusione. Ecco, seguiamo i tempi stabiliti da Dio, abbandonati alla Sua volontà, senza paure o preoccupazioni eccessive.

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S.E.R. Card. Raymond Leo Burke

Preghiera quotidiana di coloro che si sono consacrati a Nostra Signora di Guadalupe

O Vergine Madre di Dio, Nostra Signora di Guadalupe,
al sorgere di un nuovo giorno io rinnovo la mia consacrazione a Te, mia compassionevole madre.
Prego di poter essere oggi, con San Juan Diego, tuo messaggero sempre fedele.

Ti prego, intercedi per la conversione del mio cuore a Cristo, Tuo divin Figlio. Lungo questo giorno, possa il mio cuore, unito al Tuo Cuore Addolorato e Immacolato, riposare sempre più perfettamente nel Suo glorioso Cuore trafitto.
In ogni cosa, possa io compiere ciò che Egli mi domanda.
Nelle difficoltà, nelle prove e nelle tentazioni, possa io, nel Tuo abbraccio, confidare nella Sua promessa di ottenere in me il trionfo sul peccato e sulla morte.

Prego anche per i tanti che hanno abbandonato Cristo e per i tanti che ancora non Lo conoscono.
Possa Tu portare milioni di anime a Cristo e possa io, Tuo messaggero, avvicinare anime a Lui che, solo, è la nostra salvezza.

O Signora di Guadalupe, sotto il Tuo manto pongo la mia famiglia e la mia patria, domandando che Cristo possa regnare in tutti i cuori dal Suo Sacratissimo Cuore.
Possa Egli, per Tua intercessione, effondere nei cuori umili e contriti il dono settiforme dello Spirito Santo, dissipando da essi ogni oscurità e peccato e infiammandoli con la verità e l’amore divini.

Possa io, vivo in Cristo, avanzare oggi nel pellegrinaggio terreno verso la mia dimora eterna con Te, con gli angeli e con tutti i santi, dove loderemo e glorificheremo per sempre Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo.
Con tutto il mio cuore, domando questo in Cristo, Tuo divin Figlio, mio Signore e mio Salvatore.

Amen.

Eleonora Casulli

LA DONNA NEL GIUDEO-CRISTIANESIMO E NELLA CHIESA CATTOLICA

MAI COSTOLA FU PEGGIO FRAINTESA

Proseguendo nel percorso che ci sta portando a riscoprire, basandoci sulle Sacre Scritture, la visione del giudeo-cristianesimo relativamente al mondo femminile in se stesso e in relazione col maschile, mi si conceda l’ironia sottesa nel titolo del presente articolo. La questione è certamente seria e importante, ma la quantità e la pertinacia dei travisamenti a cui è andato incontro il testo di Genesi 2, 21-23 nel corso del tempo mi spinge a cercare di sdrammatizzare.

Il testo recita:

“Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
«Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta».”


Il torpore segue all’insoddisfazione che l’uomo trova nella compagnia delle altre creature, in particolare degli animali, che non gli consentono di uscire dalla solitudine esistenziale nella quale si trova (vedere il precedente articolo). Tale torpore indica, nella Bibbia, l’imminenza di un importante intervento della Grazia di Dio: si vuole sottolineare la passività dell’uomo rispetto a ciò che sta per accadere e, quindi, che la donna è il risultato di un’azione di Grazia, è opera dello Spirito Santo, è voluta da Dio per il bene delle sue creature. Basterebbe soltanto questo passaggio, in verità, a mostrare l’enorme distanza fra questa visione e quelle dei miti pagani e del mondo pre-cristiano: si pensi al mito greco del vaso di Pandora1, nel quale la prima donna mortale viene portata sulla Terra da Zeus per vendetta, al fine di danneggiare gli uomini, creata apposta per la perdizione del genere umano; ella, infatti, arrivata sulla Terra, apre il vaso che Zeus le ha detto di non aprire e da esso scaturiscono e si diffondono tutti i mali che affliggono l’umanità, compresa la mortalità. Sebbene si possano rintracciare analogie fra tale mito e il racconto della Genesi sul peccato originale, è evidente la novità del giudeo-cristianesimo: la donna della Genesi è creatura amata e voluta dal Creatore al pari dell’uomo, orientata al bene in quanto creatura di un Dio che è assoluta bontà ed è guidato dall’amore incondizionato verso l’umanità (a differenza delle divinità pagane). Inoltre appare chiaro come l’uomo, non vedendo Dio che opera la creazione della donna, non possa considerarla una creatura fatta su misura dei propri desideri: ella è e resterà sempre per lui un mistero e solo in Dio, Creatore di entrambi, i due saranno in grado di incontrarsi e conoscersi nel profondo del loro essere.2
Mentre l’uomo è assopito, Dio stacca una sua costola e con essa plasma la donna. Per secoli questa frase ha fatto della donna un sottoprodotto dell’umanità, un’eterna seconda, nel tempo e nel valore, in quanto “derivato” dell’uomo. Niente di più lontano dalla volontà dell’autore biblico. Infatti, “un’interpretazione del termine «costola» attenta al contesto letterario e culturale smentisce (…) tale mentalità. (…) Qui «sela=costola» serve per indicare la rassomiglianza tra due esseri e la parentela. Così l’uomo e la donna sono fatti dello stesso materiale; hanno la stessa natura e la stessa dignità perché fatti della stessa pasta”.3
Mi sembra essenziale e illuminante questo punto: al di là dei travisamenti accorsi nella storia del giudeo-cristianesimo, figli della comprensione graduale della Rivelazione che sempre bisogna tener presente,4 oggi sappiamo che questo passo biblico significa proprio parità di genere, per dirla con un linguaggio contemporaneo. Parità di genere non nel senso del maschio che concede alla donna la parità, dopo che ella ha lottato per ottenerla; qui la parità sta a livello di essere: l’uomo e la donna, il maschio e la femmina del genere umano, sono alla pari, uguali in tutto e per tutto perché così il Creatore li ha pensati, voluti e «costruiti».5 Ecco perché, a mio parere, ogni legittima lotta che vede come obiettivo il riconoscimento di questa parità non dovrebbe additare la tradizione giudaico-cristiana come uno degli ostacoli contro cui lottare, bensì come un potente alleato, una base sicura su cui poggiarsi e una copiosa fonte ispiratrice alla quale poter attingere. Almeno in linea di principio. Allo stesso tempo, non dobbiamo considerare a priori negativamente tutte le rivendicazioni di questa parità: esse vanno certamente passate al vaglio della fede cristiana, ma possono essere considerate parte di quei “segni dei tempi” che aiutano la Chiesa stessa a progredire nella comprensione della Rivelazione.6
La costola è nella tradizione giudaica la parte più nobile, perché contiene il cuore, quindi l’amore e la vita: questo dice molto sul valore e sulla funzione della donna e ci porta ai versetti successivi, laddove Dio presenta la donna all’uomo ed egli esplode in un canto di gioia e liberazione (“finalmente”). Finalmente l’uomo può uscire dal silenzio del proprio insormontabile isolamento esistenziale e aprirsi al dialogo profondo con un «tu» grazie al quale comprende fino in fondo anche la propria identità.7 L’uomo riconosce la donna come dono del Creatore (è Dio che la conduce a lui), non come propria conquista o come oggetto che esercita seduzione su di lui, facendo dell’uomo una preda della donna; la loro relazione, dunque, dice donazione e gratuità, pilastri del matrimonio cristiano e valori sempre più lontani, purtroppo, da quanto il mondo ci propone.
Le gioiose parole pronunciate dall’uomo (“è carne dalla mia carne/e osso dalle mie ossa”) ci riportano al giusto modo di intendere la plasmazione dalla costola: l’uomo riconosce nella donna una parte di sé, vede in lei e sottolinea l’appartenenza alla stessa realtà creaturale, le sue parole così concretamente corporali dicono in maniera splendida ed efficacissima il rapporto che si instaura fra i due: “una comunione profonda mediata dalla realtà corporale (…) ritenuta capace di far entrare in dialogo due persone”.8
Si arriva, infine, alla chiarificazione terminologica che conclude la comprensione nuova della realtà: al versetto 23 non si parla più di «adam», essere umano indeterminato, ma Adamo parla di se stesso chiamandosi «ish» (uomo, signore, marito) e chiama la donna «isshah» (letteralmente «uoma», in italiano «donna»): chiamandola con il femminile di se stesso, l’uomo riconosce in lei la comune radice di appartenenza, pur nella diversa identità. L’originale ebraico è potente ed efficace nel togliere ogni residuo dubbio su quanto detto.9

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[1] Per il testo italiano tradotto dall’originale di Esiodo: https://it.wikisource.org/wiki/Le_opere_e_i_giorni_(Esiodo_-_Romagnoli)/Prometeo_e_Pandora Per un commento esplicativo: https://aulalettere.scuola.zanichelli.it/sezioni-lettere/il-passato-ci-parla/la-prima-donna-pandora-lindefinibile
[2] Cfr. G. Cappelletto, In cammino con Israele. Introduzione all’Antico Testamento – I, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, pag. 140.
[3] Ibidem.
[4] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 94 e 99.
[5] «Costruire» è la più fedele traduzione del verbo ebraico generalmente tradotto con «plasmare», cfr. Cappelletto, pag. 140.
[6] Cfr. Gaudium et Spes 4, 11, 44.
[7] Non posso qui soffermarmi su quanto le scienze umane, la psicologia e la sociologia in primis, ma anche le più recenti neuroscienze, ci confermino questo attraverso i percorsi propri di ogni disciplina: l’uomo può prendere gradualmente coscienza di sé solo nella relazione con l’altro e con l’ambiente, a partire dal grembo materno.
[8] Ibidem, pag. 141.
[9] Interessante articolo che si sofferma sulla terminologia: https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Partire_da_Adamo_ed_Eva.html

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