Alfredo Villa
Quale è il senso delle aperture del Vaticano sul fine vita?
Si tratta di una domanda apparentemente complessa per la quale vi sono alcune risposte relativamente semplici. Può essere da considerarsi come positivo il fatto che la Pontificia Accademia per la Vita, possa portare un contributo atto a favorire una legislazione migliore e che, in qualche modo, questa possa aiutare chi muore, ma in realtà essenzialmente il team curante ed i famigliari, ad affrontare delle scelte, di fronte alle quali, oggi, si hanno dei riferimenti normativi insufficienti e spesso, nella realtà, aggirati. Una buona legge, formulata anche con l’aiuto della Chiesa, che avrà comunque un ruolo veramente marginale in tale formulazione, potrà servire a ridurre il dolore e le difficoltà inerenti ad alcune tragiche situazioni particolari.
Tali aperture hanno invece poco senso, se non alcuno, se la Chiesa tendesse a concentrare le sue migliori energie sul processo del morire, sulle tecnicalità e le norme e non sul senso stesso della morte, senso che dovrebbe essere il nucleo di ogni sua azione pastorale.
Per quanto riguarda la morte ed il morire, però, l’opinione del popolo, che spesso è Voce di Dio, è che la Chiesa parli di qualche cosa di cui non sa nulla e che quindi parli a sproposito.
Il fatto che questo non sia per nulla vero è purtroppo l’evidenza di come non si sia riusciti a trasmettere ed in qualche modo a donare concretamente a chi muore la ricca e soprattutto salvifica, Tradizione cristiana, sul morire.
Questa opinione, che vuole la Chiesa estranea alla morte ed al morire, credo si basi sull’esperienza personale della maggioranza degli uomini contemporanei, che si appresta a morire spesso in solitudine.
La Chiesa, che in effetti dovrebbe essere l’unica a poter parlare della morte e del morire, ha in buona parte rinunciato a questo suo compito costitutivo nello stesso istante in cui ha smesso di essere presente, per lo meno nel mondo occidentale, dove si soffre e si muore, perdendo così l’ineffabile privilegio e l’incomparabile grazia che deriva dall’essere accanto ad ogni agonizzante, che con il suo morire inevitabilmente ed in modo misterioso, tende a confermare e rafforzare ogni Verità di Fede e dà testimonianza nella sua carne di quelle sacre Verità, che la Chiesa stessa è chiamata a portare ad ogni uomo.
Così facendo effettivamente priva sé stessa di tale Grazia, in quanto, pur con comprensibili motivi storici, sociali e di effettive energie in termine di numero di pastori, non è vicina ad un’inestimabile fonte di santità ed ad una forza vivificante, che a sua volta potrebbe, a mio avviso essere motivo di rinascita di fede e di vocazioni.
Credo si possa dire che l’accompagnare i morenti ad una morte cristiana potrebbe avere al giorno d’oggi gli stessi effetti del sangue dei martiri per le prime comunità.
Mentre leggevo i recenti articoli sulle “aperture e mediazioni legislative”, del Vaticano quanto ad idratazione, alimentazione e testamento biologico, mi sono venuti in mente le migliaia di sacerdoti che sul carro del condannato a morte, fino all’ultimo istante svolgevano il loro compito di favorire la salvezza di quell’anima.
Mi sono ricordato del primo “miracolo” di Santa Teresina di Lisieux che per salvare l’anima di un condannato a morte impenitente, che in quanto tale era destinato non sollo alla ghigliottina ma anche all’inferno, si è sacrificata con preghiere e privazioni, affinché quest’ultimo, richiedesse ed accettasse i conforti religiosi e pentendosi, potesse entrare in Paradiso.
Ho pensato alle promesse fatte da Gesù a Santa Faustina, quanto al dono della salvezza dell’anima della persona per cui si prega la Coroncina della Misericordia durante la sua agonia.
La Chiesa è sempre stata interessata alla salvezza delle anime, più che al come ed in che modo queste anime fossero strappate alla vita.
Se la Chiesa, che significa innanzitutto, in una gerarchia ben precisa, i suoi sacerdoti e religiosi e poi il popolo dei credenti, fosse ancor oggi accanto ai morenti a dire loro incessantemente e fino all’ultimo istante quelle parole di vita eterna che le sono state trasmesse da Cristo stesso, metterebbe sicuramente in secondo piano la mediazione su alcuni aspetti procedurali e sulla loro eticità.
E se poi, attingendo dalla tradizione quelle preghiere, quei gesti e quelle liturgie che preparano e consolano il morente, promuovesse ed impartisse quei Sacramenti che sono certezza di Vita Eterna, si renderebbe conto che, una volta fatto tutto quanto in suo potere e compiuto con fede il proprio compito con la dovuta sacralità, il fatto che si interrompa o no la nutrizione o l’idratazione sarebbe di per sé meno importante.
La difesa della vita a cui la Chiesa è chiamata, decade e diviene sterile argomentare, nello stesso istante in cui essa stessa smette di credere nella Vita Eterna, concentrandosi su di una prospettiva temporale e finita, senza essere più in grado di introdurre e preparare l’uomo alla sua inevitabile eternità.
È quindi la Vita Eterna che la Chiesa ed i cristiani sono chiamati a custodire e proteggere, anche perché le sono stati affidati gli strumenti per poterlo fare, ovvero la Parola di Dio ed i Sacramenti.
La Chiesa ha il dovere di stare accanto a chi muore, per trasformare la naturale paura in speranzoso avvento e questo grazie allo stravolgente annuncio del Vangelo, da portare soprattutto a chi tale annuncio non conosce o lo ha dimenticato.
La Chiesa ha l’obbligo, non morale, ma costitutivo di accompagnare i morenti, affinché questi conoscendo Dio, lo possano amare e per tale amore, desiderare ed essere certi, che tutte le Sue promesse saranno mantenute.
Nella sua bellissima lettera di commiato, Papa Benedetto XVI non nega il timore del morire, ma riconosce che il desiderio di incontrare Qualcuno che ha imparato ad amare per Grazia ed a conoscere, se pur parzialmente, attraverso la Chiesa, è infinitamente più grande di ogni angoscia.
Con poche e semplici parole il Papa non ha fatto altro che esemplificare con chiarezza quale sia il compito della Chiesa accanto a chi muore. E questo compito non può essere svolto se non si è fisicamente presenti al capezzale di ogni agonia.
Quindi non posso che pregare affinché la Chiesa riduca il discutere sul processo del morire, ma inizi a parlare a chi muore, dicendo quelle parole, che non sono sue, ma che è chiamata a custodire ed a trasmettere per la salvezza delle anime, che è, invece, suo compito esclusivo.
Essere una delle autorità morali tra altre, una delle molte religioni, la depositaria di una delle verità annunciate da un profeta, una delle strade possibili per giungere a Dio è tradire, nel suo nucleo, il fatto che Gesù sia Via, Verità e Vita.
Il negoziare, il mediare, la sinodalità o qualsiasi altra azione umana atta a mostrare il volto dialogante e comprensivo della Chiesa, non deve far dimenticare che il vero volto della Chiesa è quello del Cristo sofferente nella Passione e glorioso nella Resurrezione, un volto, il primo, che abbiamo la grazia di incontrare in ogni agonizzante.
La Chiesa non deve temere di perdere un “posto” in questo mondo. Ne ha già uno importantissimo che è quello di stare accanto a chi muore e soffre, anche perché tale posto non le sarà mai tolto, in quanto è un posto che nessuno vuole, soprattutto se questo compito doloroso ed impegnativo è da svolgere in assoluta gratuità.
Invece che lo “stare accanto” reale, che è fatica e coinvolge tutti i cinque sensi, il sovrastimare il dialogare ed il disquisire sulla morte ed il morire, può procurare la falsa certezza di aver fatto veramente qualche cosa per i morenti quando in realtà si è fatto ben poco per loro.
Il dialogo e la negoziazione rischiano d’annacquare la responsabilità individuale, anestetizzando la colpa personale e quindi -qui sta il vero pericolo- di annullare il santo impulso di chiedere costantemente perdono a Dio per le nostre mancanze.
Il disquisire di etica e morale non solo riduce la chiamata all’agire, ma dà quella falsa consolazione ed assoluzione personale, di cui costantemente ci nutriamo, che porta a dimenticarci del morente e lo priva di quella vera Consolazione e Assoluzione di cui ha estremamente bisogno.
A poco servono le prese di posizioni, che sono unicamente morali ed etiche, su argomenti che trascendono l’uomo e che resteranno per sempre nascoste nel mistero di Dio.
E per quanto è solo Dio che salva, l’Inferno alcuni possano ritenerlo vuoto, l’uomo sia un servo inutile nel piano salvifico di Dio, la Chiesa ed i cristiani sono obbligati a collaborare alla salvezza propria ed a quella del prossimo. Una salvezza che si gioca in ogni istante della vita ed in modo particolare nella morte, oltre la quale nulla è più possibile agli uomini.
Personalmente ritengo una Grazia incommensurabile quella d’aver la possibilità di essere accanto a chi soffre e di poter testimoniare a chi sta per morire, attraverso le mie povere possibilità, l’amore di Dio e la presenza della Chiesa e di poter avere il privilegio di pregare per la sua anima, sapendo che se la mia anima sarà un giorno immeritatamente salvata è sicuramente grazie al fatto che le persona che in quel momento sto accompagnando a morire, sarà la prima a chiamarmi in Paradiso ed a intercedere per me.
Sembra tutto molto, troppo semplice, ma credo proprio che sia così che si manifesta la Volontà di Dio quando ci comanda l’amore per il prossimo.
Forse l’amore per il prossimo si può riassumere, come massima sua manifestazione, nel consumante desiderio di saperlo salvo a costo della propria stessa vita. Del resto, questo non è null’altro che la testimonianza reale che ci giunge dalla Croce.
Che Dio non voglia che la Chiesa, che esiste proprio perché ha ricevuto tutti i talenti possibili, non sia come il servo della parabola, che prende l’infinità dei suoi talenti e li nasconda sottoterra, privando, nello specifico, il morente dell’unica cosa di cui ha veramente bisogno.
E soprattutto che non sia che questi talenti finiscano sottoterra, non per paura di un Padrone esigente, ma per il miraggio di un Dio buono che perdonerà comunque tutto e tutti.
Il perdono a priori non è certo il messaggio da portare a chi muore, che invece ha solo bisogno di Verità e di sapere che non vi è nessuna differenza tra chi muore e chi accompagna quanto alla responsabilità personale e comunitaria di desiderare quella Salvezza che sempre e per sempre viene offerta dalla Misericordia di Dio grazie all’incommensurabile prezzo pagato da Gesù e da tutti coloro che consapevolmente soffrono, alla Sua Giustizia.
Ciò che veramente conta ed è essenziale, ha poco a che vedere con le modalità del morire che uno Stato qualsiasi determinerà essere quella migliore, modalità che diventa apparentemente argomento importante quando, non sapendo più testimoniare la Verità di Cristo, si ha come unico interlocutore l’uomo.